lunedì 1 aprile 2013

Finanziamento pubblico, rimborsi elettorali e demagogia



L'abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti è uno dei temi più dibattuti nell'ultima campagna elettorale: cavallo di battaglia di Renzi nella sfida delle primarie, è una delle riforme richieste più a gran voce da Beppe Grillo e dal popolo a 5 Stelle.
Succede spesso che il martellamento elettorale su alcuni temi particolari porti ad una automatizzazione delle posizioni dei cittadini: sentirsi ripetere continuamente che "il finanziamento pubblico deve essere essere abolito!" porta a convincersi, molto probabilmente senza una riflessione approfondita della questione, che il male assoluto della democrazia italiana sia il meccanismo di finanziamento e di rimborso elettorale ai partiti. Siamo sicuri che sia così? Approfondiamo la questione.

Breve storia del finanziamento pubblico in Italia
Il finanziamento pubblico ai partiti è stato introdotto in Italia con la legge Piccoli n.195 del 2 maggio 1974, che prende il nome dal parlamentare Flaminio Piccoli (DC): venne votata da tutti i partiti presenti nel parlamento, ad eccezione del Partito Liberale Italiano (che subito dopo, sempre nel 1974, tentò di istituire un referendum abrogativo, non riuscendo però a raggiungere il numero di firme previsto). Motivo? Tentare di arginare il fenomeno della corruzione. Il ragionamento alla base della legge era più o meno il seguente: "se un individuo ricchissimo, una lobby finanziaria o anche semplicemente un ente pubblico decide di finanziare un partito, inevitabilmente vorrà in cambio una serie di leggi a tutela dei propri interessi. Introduciamo dunque un meccanismo di finanziamento pubblico, al fine di ridurre questo pericolo."
La legge approvata nel 1974 aveva una clausola fondamentale: obbligava infatti i partiti a rendicontare in maniera trasparente tutti i finanziamenti ricevuti dallo stato, e vietava alle formazioni politiche di ricevere finanziamenti da enti pubblici (come ad esempio l'Eni). Tuttavia la norma non ebbe i risultati sperati: numerosi furono infatti i casi di corruzione e di tangenti, tra i quali spiccano quello del 1976, quando l'industria statunitense Lockheed ammise di aver pagato somme di denaro a parlamentari italiani per vendere i propri aerei, e quello del banchiere Michele Sindona, che sempre in quegli anni mise in piedi un sistema di corruzione gravitante intorno alla Democrazia Cristiana.
Nel 1980 avviene un tentativo di raddoppiamento dei finanziamenti pubblici: inizialmente fallito (a causa dello scandalo Caltagirone), l'anno successivo va a buon fine. La legge n.659 del 18 novembre 1981 introduce delle modifiche così sintetizzabili: i finanziamenti pubblici vengono raddoppiati; i partiti e i singoli candidati hanno il divieto di ricevere finanziamenti da enti pubblici e dalla pubblica amministrazione; viene istituito un nuovo meccanismo di trasparenza dei bilanci: i partiti devono consegnare annualmente un rendiconto delle entrate e delle uscite, anche se non è previsto alcun controllo effettivo. Il Partito Radicale, nei giorni di discussione della legge, tenta di impedirne l'approvazione, attraverso atti di ostruzionismo parlamentare.
Si arriva così a due importanti referendum: il primo, promosso dai Radicali nel 1978, non raggiunge il quorum per pochi punti (il "sì" alla abolizione dei finanziamenti ammontava al 97%); il secondo, promosso nell'aprile del 1993 dopo l'inchiesta di Tangentopoli, raggiunge il quorum con una percentuale di "sì" del 90,3%.
Nonostante l'esito schiacciante del quesito referendario, il finanziamento pubblico fu sì abolito, ma solo formalmente: attraverso un aggiornamento di una normativa già esistente, venne rimpiazzato da una nuova legge del dicembre 1993 in materia di rimborsi elettorali, già operativa nelle elezioni del 1994.
Nel 2000 si registra un nuovo tentativo referendario da parte del Partito Radicale, finalizzato ad eliminare i rimborsi elettorali: il quesito non arriva neanche lontanamente al quorum, vedendo la partecipazione di soltanto il 32% degli aventi diritto al voto.
La norma venne ampliata nel 1999, attraverso una normativa che destina, a partire dalla legislatura del 2001, fondi a tutti i partiti che superano l'1%. Nel 2006 la normativa viene ulteriormente modificata: da questo momento, i partiti avrebbero ricevuto rimborsi per 5 anni dal voto, anche in caso di fine anticipata della legislatura. Per dare una idea dei soldi smossi da questa legge, basti pensare che nelle elezioni del 2008 il Popolo della Libertà ricevette 206 milioni di euro, il Partito Democratico 180 milioni, la Lega Nord 40.
Nelle legislature successive al 2006 lo stato arriva a spendere cifre esorbitanti: circa 456 milioni di euro per legislatura.
Per arginare questo sperpero di denaro pubblico, nel luglio del 2012 è stata votata la legge n.96/2012 proposta dal governo Monti che prevede un dimezzamento dei fondi pubblici ai partiti (da 182 a 91 milioni) per l'anno successivo, e prevede una graduale diminuzione per gli anni a seguire. La legge prevede inoltre nuove condizioni per accedere ai fondi: è necessario raggiungere almeno il 2% alla Camera o avere almeno un parlamentare eletto; è necessario che il partito si doti di un atto costitutivo e di uno statuto interno "conformato a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti" (motivo per cui il Movimento 5 Stelle non può accedere ai finanziamenti). In più, la legge prevede nuovi meccanismi di trasparenza (istituzione di una commissione composta da 5 magistrati, 3 della Corte dei Conti, 1 del Consiglio di Stato, 1 della Corte di Cassazione, finalizzata al controllo, e obbligo per i tesorieri dei partiti di rendere pubblici i redditi personali e familiari) e un dispositivo per promuovere le quote rosa: in caso di un numero di persone dello stesso sesso maggiore ai 2/3 degli appartenenti, il partito in questione ha una decurtazione del 5% dei fondi previsti.

Come si comportano gli altri Stati europei? 
Se spostiamo lo sguardo dalla nostra amata terra e lo dirigiamo verso le contrade europee, noteremo immediatamente come il meccanismo del finanziamento pubblico ai partiti non sia un cancro della società italiana, ma al contrario una vera e propria istituzione nella quasi totalità dei paesi europei.
Per dei dati precisi al riguardo, rimando a questa pagina web: http://www.ilpost.it/2012/04/16/i-fondi-pubblici-ai-partiti-nel-mondo/

Quanto spende lo stato italiano? 
Stando alla ultima tornata elettorale, i dati che emergono sono i seguenti:

- Partito Democratico: 45.856.037 euro
- Movimento 5 Stelle: (42.782.512 euro; non può ottenerli, in quanto non ha uno "statuto"; Grillo ha comunque sempre affermato che il M5S li avrebbe rifiutati)
- Popolo della Libertà: 38.060.750 euro
- Lista Monti: 8.002.312 euro
- Lega Nord: 7.309.575 euro
- Scelta Civica: 7.126.437 euro
- Sinistra Ecologia e Libertà: 5.182.616 euro
- Fratelli d'Italia: 1.680.087 euro
- Udc: 1.528.800 euro
- Centro Democratico: 422.012 euro
- Megafono di Crocetta: 398.125 euro
- SVP: 366.275 euro
- Grande Sud: 350.350 euro

Totale: 159.065.891 euro

Da numerose inchieste emerge che i partiti hanno speso 1 euro ogni 4,5 incassati: dal 1994 al 2012 sono stati stanziati circa 2 miliardi e 700 milioni (fonti: ilfattoquotidiano, ilfattoquotidiano2, sulla base del libro "Partiti S.P.A" di Paolo Bracalini), mentre ne sono stati spesi soltanto un quarto. Ciò significa che i restanti tre quarti (circa 2 miliardi di euro) sono rimasti nelle casse dei partiti: è tuttora ignoto l'utilizzo di gran parte di questi soldi.

Alcune riflessioni
Qualsiasi riflessione approfondita sul meccanismo del finanziamento pubblico non può prescindere da un punto di partenza innegabile: ogni partito ha delle spese, sia in campagna elettorale sia nei periodi di normale attività parlamentare. Tali spese riguardano i comizi, le conferenze, le sezioni di partito: tutti elementi imprescindibili in una democrazia parlamentare. Non c'è dubbio che l'immensa quantità di denaro immessa nelle casse dei partiti, congiunta alla modesta spesa dei medesimi, rende immediatamente evidente un dato: è necessario ridurre al minimo indispensabile i finanziamenti pubblici ai partiti, che si chiamino finanziamenti o rimborsi elettorali. Questo per un fondamentale motivo, da tutti riconosciuto: in un periodo di crisi economica, in cui le casse statali languono, anche pochi milioni di euro fanno la differenza, in quanto potrebbero essere stanziati per la riqualificazione del territorio, per incentivare piccole e medie opere, per pagare i debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle piccole imprese. In poche parole: qualsiasi euro sprecato, o non utilizzato, è un danno irreparabile per la società. Con questo, trovo sinceramente eccessiva la demagogia intorno ai finanziamenti pubblici: si vuole far passare la loro abolizione come la soluzione di tutti i problemi dell'economia italiana, quando semplicemente non è così: al massimo si risparmierebbero 118 milioni di euro a legislatura, ossia 25 milioni circa all'anno (calcolando i rimborsi delle ultime elezioni): una cifra che potrebbe risolvere piccoli problemi, certo, ma non risollevare le sorti di una nazione. Che sia presentata per quello che è, dunque: una riforma finalizzata alla moralizzazione della politica, per far sì che il mestiere del politico torni ad essere una vocazione e non una via per la ricchezza, e non certo come la soluzione di tutti i mali (eppure, stando a quanto dice Grillo, l'abolizione dei finanziamenti ha una priorità rispetto alla lotta alla corruzione ed alla evasione fiscale, che porterebbe nelle casse dello stato miliardi, e non milioni, di euro in più).

Senza alcun dubbio, dunque, i rimborsi elettorali devono essere rivisti e razionalizzati. Che sia necessario diminuire al minimo indispensabile i finanziamenti pubblici non significa, però, che bisogni abolirli del tutto: quale è, infatti, la logica sottostante alla introduzione dei medesimi?

Premessa: le considerazioni che sto per esporre sono puramente teoriche, e molto probabilmente smentite dalla realtà dei fatti. Sono convinto, tuttavia, che una idea giusta rimanga giusta anche se non ha una attuazione: soprattutto nel caso in cui sia una idea non utopica, nel senso che il fatto che non abbia avuto attuazione nel passato non significa che non possa essere attuata nel futuro. Il fatto che l'idea alla base del finanziamento pubblico ai partiti non sia stata corrisposta da una azione coerente, non inficia il fatto che una politica buona (o comunque migliore rispetto a quella del passato) sia in grado di applicarla.

Il meccanismo del finanziamento pubblico ai partiti risponde ad una logica di tutela della volontà del cittadino-elettore: elettore che, durante la campagna elettorale, si sente fare delle promesse che si augura verranno rispettate in caso di vittoria del partito in questione.
Tutti i partiti, come ho già accennato, hanno delle spese, soprattutto durante la campagna elettorale: comizi, conferenze, spostamenti, alloggio dei politici; tutte spese necessarie, che non possono essere delegittimate con la presunzione (propria del Movimento 5 Stelle) che tutto il motore elettorale sia in grado di alimentarsi con il lavoro volontario dei militanti. Chi ha esperienza di attività politica sa benissimo che durante le campagne elettorali la totalità dei militanti dei partiti lavora gratis: e tuttavia rimangono delle spese, non copribili con il sudore dei militanti. Inoltre, i partiti (soprattutto quelli fortemente radicati sul territorio) si reggono su una rete di segreterie e sezioni, alla cui "testa" vi è un cittadino-militante che impiega una larga fetta della sua giornata a svolgere il suo ruolo: "il tempo è denaro", recita un famoso detto. Per essere meno retorici: anche i segretari di sezione hanno un piccolo "stipendio", il più delle volte simbolico, che va a premiare una attività fatta di fatica e lavoro: fatica e lavoro dedicati alla collettività, dato che (fino a prova contraria) l'attività politica è finalizzata alla collettività.
Dico questo perchè quando i vari politicanti da strapazzo (e tra questi ci sono anche i vari pentastellati da tastiera) attaccano con una violenza senza precedenti i finanziamenti ai partiti, molto probabilmente dimenticano che essi servono anche (e soprattutto!) a remunerare persone (quasi tutti giovani) che dedicano gran parte del proprio tempo all'attività politica. Giovani che studiano, che a malapena hanno un lavoro: tanto di cappello, se impiegano il loro tempo a svolgere attività politica! E non si venga a dire che "la politica è fatta di passione, non servono i soldi", perché chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale sa perfettamente che bisogna arrivare a fine mese, e che c'è una gigantesca differenza tra le varie migliaia di euro che incassa un parlamentare e le poche centinaia che riceve un segretario di sezione (quando li riceve!).
Inoltre, non dimentichiamoci che quando un partito spende dei soldi per montare un palco (ad esempio) dà lavoro a dei cittadini: si parla tanto di economia reale, di mancanza di liquidità e di scambio di ricchezza, e poi si va a criticare proprio ciò che garantisce delle ore di lavoro. Quindi, per favore, quando si affronta il tema dei finanziaminanziamento pubblico, al fine dte piccole cose, che rischiano di essere dimenticate nella selva della retorica demagogica.

Quelle sopra elencate (ce ne sono anche altre, ovviamente) sono tutte spese necessarie: un semplice dato di fatto. Ora: da dove i partiti prendano i soldi necessari, fa una grandissima differenza. Ci sono tre "situazioni" possibili (che non si escludono l'un l'altra):

- finanziamento a carico dello stato (finanziamento pubblico)
- finanziamento a carico di privati (finanziamento privato)
- finanziamento sotto forma di donazione degli elettori (donazioni)

Qualche riga sopra ho scritto che "il meccanismo del finanziamento pubblico ai partiti risponde ad una logica di tutela della volontà del cittadino-elettore": procedo a motivare questa affermazione.
Finanziamento pubblico significa tutela della volontà dell'elettore in quanto il partito riceve soldi dallo stato, entità impersonale che non chiede niente in cambio: il finanziamento pubblico è una somma che i partiti si trovano in mano senza che debbano sottostare ad alcuna richiesta che non sia quella dell'elettore, il quale ha interesse che il partito che ha votato mantenga le promesse elettorali, molto semplicemente. In un sistema in cui ricevono finanziamenti sulla base di un consenso elettorale minimo (come quello attuale, dove serve il 2% alla Camera), i partiti hanno tutto l'interesse a mantenere le promesse elettorali ed un comportamento etico adeguato: in quanto proprio dal mantenimento delle promesse e dal comportamento adeguato gli proviene il consenso, e di conseguenza il finanziamento. In altri termini: per sopravvivere come entità, il partito necessita di entrate; e dal momento che queste derivano dal consenso, si farà di tutto per accontentare i propri elettori.
Ovviamente, affinché tutto ciò funzioni è necessario che i finanziamenti sia commisurati alle spese effettive dei partiti, che per legge devono essere mantenute al di sotto di una certa soglia.
Al contrario, il finanziamento a carico di privati fa sì che i partiti si impegnino a tutelare o a promuovere gli interessi dei loro finanziatori: in quanto è assolutamente utopico e fuori dal mondo pensare che un privato, che sia un singolo cittadino molto ricco o una lobby, eroghi una certa somma (più o meno ingente) senza chiedere nulla in cambio. In tal caso, la volontà dell'elettore è minata: in quanto i partiti non devono rispondere soltanto ai loro elettori, ma anche (e soprattutto) ai finanziatori, che sicuramente hanno interessi che non collimano con quelli della collettività (si pensi alle multinazionali e alle compagnie petrolifere che finanziano i partiti americani).
Sia chiaro: se si aboliscono i finanziamenti pubblici, la democrazia si ritrova alla mercè dei potenti e dei ricchi. Con buona pace degli elettori, che non hanno alcuna garanzia di tutela dei propri interessi. Non che ciò avvenga automaticamente in caso di finanziamento pubblico ai partiti, ovvio: ma sicuramente si elimina la necessità di finanziamento a carico di privati, con tutti i rischi che comporta. In altri termini, non ci troviamo automaticamente nella migliore situazione possibile: ma si elimina un pericolo di peggioramento della situazione attuale.
Non bisogna neppure dimenticare che, in una società mediatica come la nostra, la disponibilità economica di un partito determina il suo spazio pubblicitario e mediatico: gli ultimi decenni dimostrano che l'equazione "spazio in televisione = consenso elettorale" è una triste realtà, e che bisogna far sì che la ricchezza personale non sia una facile strada alla vittoria politica.

Troppo spesso i cittadini dimenticano una cosa importantissima: i partiti devono rendere conto ai propri finanziatori, e nel caso del finanziamento pubblico non è soltanto lo stato l'entità cui essi devono rendere conto, ma i cittadini nella loro totalità: perchè ciò che chiamiamo "stato" non è altro che una macchina che si regge grazie al loro contributo fiscale. Dovendo tutelare gli interessi del proprio finanziatore, lo stato, i partiti non devono far altro che tutelare l'interesse dei propri elettori.

Tutt Corte di Cassazione, finalizzata pratica ci rivela una realtà fatta di tesorieri che si intascano ingenti somme, con la quasi sicurezza dell'impunità. Tuttavia, convinto della utilità civile del finanziamento pubblico ai partiti, provo a delineare la mia proposta:

- sistema di finanziamento con contributi sia pubblici sia privati; per quanto riguarda i contributi pubblici, essi devono essere contenuti (stabiliti per legge entro un certo "tot"), e devono servire al pagamento delle spese elettorali e dei funzionari di partito. Essendo "contenuti" (nell'ordine, mettiamo, di qualche milione di euro) i partiti si trovano costretti a non sperperarli in consulenze inutili e in una "architettura" di partito vasta oltre il necessario; le spese devono essere rendicontate in maniera trasparente e devono essere "appese" on-line, consultabili in ogni momento. Per quanto riguarda i finanziamenti privati, essi devono essere in proporzione molto inferiori ai contributi pubblici (dell'ordine, diciamo, del 20% massimo): così da fargli avere una importanza relativa e non decisiva ai fini della potenza mediatica dei partiti; devono essere pubblici, rendicontati in maniera trasparente, online e consultabili in ogni momento, così che il cittadino sappia in ogni momento quali interessi economici ci sono (eventualmente) dietro un partito.
Istituzione di una commissione con il potere di controllo dei conti, costituita per quattro sesti da magistrati (membri della Corte dei Conti, del Consiglio Superiore della Magistratura, del Consiglio di Stato, della Corte di Cassazione), per un sesto da esponenti dei partiti (così che essi si possano controllare reciprocamente) e per un sesto da esponenti della società civile eletti direttamente dai cittadini. Tale commissione ha il compito di controllare l'operato dei partiti, e soprattutto di verificare se essi abbiano ricevuto dei finanziamenti privati occulti: in tale caso, si procede alla revoca della totalità dei contributi del partito in questione per tutta la durata della legislatura.



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