giovedì 13 aprile 2017

Il computer quantistico




Dagli studi logici di Alan Turing al primo computer, dall’invenzione di internet ad oggi il progresso tecnologico ha registrato un’accelerazione senza pari nella storia della civiltà umana. Per vari decenni l’aumento della potenza di calcolo dei computer è proceduto parallelamente alla miniaturizzazione dei transistor, un fenomeno descritto come “legge di Moore”: tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del secolo scorso la complessità dei processori, misurata ad esempio sulla base del numero di transistor presenti, ha quadruplicato ogni tre anni, per poi addirittura accelerare fino ad arrivare ai limiti stabiliti dai piccoli ordini di grandezza raggiunti oggi. I transistor di silicio più recenti hanno la dimensione di 10 nanometri, un ordine di grandezza vicino a quelli in cui si manifestano i turbolenti fenomeni della meccanica quantistica.
Quello che inizialmente era un limite è poi diventato la base di una nuova tecnologia, e forse anche di una nuova generazione di processori: i computer quantistici. L’idea risale agli anni ’80, quando il fisico Richard Feynman comprese che i principi fisici su cui si basa un hardware (la componente fisica del computer) influenzano profondamente la sua capacità di affrontare i problemi e tentò di concepire una macchina funzionante in base alle leggi della fisica quantistica, aprendo così una nuova era per l’informatica. Solo di recente, grazie ai progressi della tecnologia, si è arrivati ad un risultato concreto: nel 2011 la D-Wave Systems ha annunciato il D-Wave One, il primo computer quantistico della storia ad essere commercializzato, e nel 2016 la società IBM ha messo a disposizione pubblicamente IBM Quantum Experience, il primo computer quantistico in modalità cloud.

Per capire il funzionamento di un computer quantistico e le novità che presenta è necessario comprendere il funzionamento dei computer tradizionali. Ogni computer ragiona in termini di “bit”, l’unità di misura fondamentale dell’informazione e la quantità minima di input che il computer riesce ad elaborare (il termine deriva da “binary digit”, e significa appunto “pezzetto”). Nel corso della storia dei computer i bit hanno assunto le forme fisiche più varie: voltaggi applicati ai connettori di un transistor, buchi eseguiti in una scheda perforata, leve, righe bianche e nere di un codice a barre, porzioni magnetizzate di un disco. A prescindere dalla struttura, i bit possono assumere soltanto due stati: il connettore di un transistor può essere alimentato oppure no, una singola parte di una scheda può essere perforata oppure no, una leva può essere alzata o abbassata, le porzioni di un disco possono essere magnetizzate in un senso oppure nell’altro, e così via. Qualsiasi informazione l’utente voglia codificare, deve farlo in codice binario: attraverso, cioè, elementi (i bit) che possono assumere due valori, cui si dà convenzionalmente il nome di “0” e “1”. I bit sono raggruppati in “registri” o “sequenze”: quando si parla di PC a 32 o 64 bit si intende il numero massimo di bit che il computer è in grado di elaborare contemporaneamente. La quantità di informazione presente in un registro consiste nel numero di combinazioni dei valori 0 e 1 che possono assumere i bit che contiene: dato che i valori sono due, se il registro ha n bit il numero possibile di combinazioni è 2n. Ad esempio, un computer a 32 bit è in grado di gestire registri che presentano 232 possibili combinazioni di 0 e 1: 00, 01, 101, 0001, 11101, fino ad una sequenza di 0 e 1 che abbia 232 cifre.
Tutti i registri vengono gestiti dal computer attraverso un numero limitato di “porte logiche” o “calcoli di base”, sette in tutto, che appartengono alla logica introdotta dal matematico britannico George Boole nel corso del Diciannovesimo secolo: per fare qualche esempio, la porta “NOT” inverte il valore dell’input (da 0 a 1 e viceversa); la porta “AND” dà come output 1 nel caso in cui tutti gli input abbiano come valore 1 (11, 111, 1111, ecc.), 0 in tutti gli altri casi (01, 010, 0010, ecc.); la porta “OR” assegna all’output valore 1 se almeno un elemento del registro è 1 (01,010,0100, ecc.), 0 in tutti gli altri casi. Ogni computer elabora gli input eseguendo tutti i calcoli che occorrono, uno dopo l’altro, applicando le operazioni logiche (opportunamente collegate da uno o più algoritmi) a tutti i bit, fino a dare come risposta l’output finale: l’input è la sequenza iniziale di 0 e 1, l’output la sequenza finale di 0 e 1 che risulta dai vari calcoli effettuati. Talvolta il numero di dati e di calcoli può essere così elevato che il computer restituisce un output soltanto dopo un lungo lasso di tempo, anche anni o decenni (come nel caso delle equazioni della teoria delle stringhe, in generale in tutti i casi in cui si abbia a che fare con problemi definiti tecnicamente “intrattabili”), rendendo poco pratico il chiedergli di eseguire quel determinato compito.

Come i processori tradizionali, i computer quantistici sono sistemi binari: elaborano unità di informazione che possono avere due valori, 0 e 1. A differenza dei computer classici, tuttavia, i computer quantistici sfruttano i fenomeni della meccanica quantistica, come la sovrapposizione coerente di stati, l’entanglement, l’interferenza quantistica e l’effetto tunnel: questo gli conferisce non solo una potenza di calcolo immensamente più grande dei processori tradizionali, ma soprattutto la capacità di risolvere problemi classicamente intrattabili come la generazione di numeri veramente casuali, la fattorizzazione di cifre molto grandi, la ricerca efficiente in database e l’analisi di big data.
Al posto dei bit il computer quantistico utilizza i “qubit” (“quantum bit”), l’unità di informazione basata su fenomeni quantistici, alla cui realizzazione sono stati di volta in volta utilizzati atomi, molecole all’interno di soluzioni liquide, fotoni intrappolati in un campo magnetico, e così via. Per la produzione del proprio computer quantistico da 5 qubit la società IBM ha utilizzato le cosiddette “giunzioni Josephson”, costituite da due parti di metallo superconduttore unite da un materiale isolante o un metallo non superconduttore, che sfruttano i fenomeni quantomeccanici della superconduttività (l’assenza di resistenza al passaggio di elettroni, all’interno di particolari metalli portati ad una temperatura vicina a -273,15 gradi Celsius) e dell’effetto tunnel: il fatto, cioè, che una particella possa superare una barriera, ad esempio uno strato isolante o un campo di potenziale, anche senza avere la carica energetica sufficiente. Un fenomeno incompatibile con le leggi della fisica classica: un corpo che rotola lungo il crinale di una montagna situata in una valle, se non ha un’energia potenziale sufficiente a superare l’altro crinale, tornerà sicuramente indietro.
Come i bit tradizionali, i qubit possono assumere due soli valori: ogni volta che misuriamo un qubit, esso ha sempre valore 0 oppure 1. Tuttavia, a differenza dei bit i qubit possono trovarsi in un’altra condizione: la sovrapposizione coerente di stati. Per comprendere questo principio della fisica quantistica è necessario abbandonare la concezione tradizionale (e intuitiva) delle particelle: la particella (ad esempio un elettrone) non è una minuscola entità sferica dotata di uno stato (posizione nello spazio e nel tempo, velocità) oggettivo e ben definito, ma la sovrapposizione di tutti i suoi possibili stati futuri, ciascuno "pesato” con una probabilità (matematicamente, una funzione d’onda probabilistica). Occorre provare a immaginarla come il pavimento di un’immensa grotta, delle dimensioni dell’Universo, da cui si elevano tante stalagmiti raggruppate in una piccola zona: ciascuna stalagmite rappresenta la probabilità di trovare la particella in quel punto, e più alta è la stalagmite più alta è la probabilità di trovarvi la particella. Prima della misurazione con gli appositi apparati strumentali non ha senso parlare di una particella in un punto ben preciso e con una velocità ben definita: l’atto di misurazione partecipa alla creazione della realtà osservata, fa “collassare” la funzione d’onda e si ottiene un valore preciso per una quantità che prima era semplicemente una delle tante possibilità. È proprio l'osservazione che provoca la "scelta " di quel particolare valore fra tutti quelli possibili: come se tutte le stalagmiti presenti nella grotta, ad eccezione di quella alla cui sommità di volta in volta si trova la particella, rimanessero lì dove sono quando gli speleologi sono fuori a riposarsi e sparissero ogni volta che partono in esplorazione per cercarla.
Ogni volta che viene misurato, il qubit restituisce sempre come valore 0 oppure 1: prima di essere misurato, tuttavia, esso si mantiene in una sovrapposizione degli stati 0 e 1, e questo conferisce al computer quantistico una capacità di calcolo immensamente superiore ai computer tradizionali. Un processore classico, infatti, esegue calcoli su un numero n di registri di valore ben definito (ogni bit è 0 o 1), che dopo ogni operazione si trovano in un nuovo stato ben preciso, fino all’output finale che ha anch’esso un valore definito (un numero n di registri di bit 0 o 1): dopo ogni calcolo, l’input si trova in una ben precisa sequenza di 0 e 1 tra le 2n possibili. In un computer quantistico, invece, l’input si trova non in un solo stato definito, ma in un numero molto elevato dei 2n possibili stati, consentendo al pc di esplorare varie strade per calcolare l’output da passare al calcolo successivo. Come mai l’input si trova in un numero molto elevato, ma non in tutti i 2n stati possibili? La ragione risiede nell’entanglement quantistico, uno tra i fenomeni più incredibili e contro intuitivi della meccanica quantistica: il fatto che due particelle risultano correlate ed interdipendenti nelle proprietà anche a distanze lunghissime (persino anni luce, teoricamente l’intera grandezza dell’Universo), comportandosi di fatto come una sola entità. Se una delle due viene misurata, e di conseguenza forzata in un determinato stato osservabile, anche l’altra manifesta istantaneamente un cambiamento di stato identico (o meglio: complementare, dato che due particelle vicine nello spazio sono legate da una relazione di anti-parallelismo). Nei computer quantistici questo effetto viene utilizzato per mettere in correlazione input ed output, ponendo due qubit in uno stato di entanglement: ciò riduce il numero di stati che un registro può assumere, eliminando in partenza una o più sequenze di 0 e 1. L’entanglement, insieme alla sovrapposizione coerente di stati, è alla base del funzionamento del computer quantistico: la sovrapposizione coerente di stati consente il vertiginoso aumento di capacità di calcolo rispetto ai processori classici, ma senza l’entanglement non sarebbe concretamente possibile estrarre informazioni da uno o più registri di qubit, rendendo così inutili tutti i calcoli.


La tecnologia dei computer quantistici è appena agli albori, ed è molto complicato fare previsioni sui tempi di sviluppo e sulla sua diffusione su larga scala: ad oggi soltanto gli enti istituzionali ed i miliardari hanno le risorse necessarie (vari milioni di dollari) ad acquistarne uno, e la comunità scientifica internazionale dovrà fare passi da gigante per realizzare processori quantistici dotati di molti qubit e formulare una logica computazionale adatta ai fenomeni quantistici. La strada è ancora lunga, ma la scienza ha tutto l’interesse a percorrerla: oltre alla capacità di affrontare e risolvere i problemi intrattabili con i processori classici, il computer quantistico apre alla possibilità di effettuare simulazioni virtuali di sistemi quantistici, consentendo alla fisica (sia teorica che sperimentale) di entrare in una nuova era.

martedì 30 settembre 2014

Discorso mai pronunciato di un Senatore della Repubblica (ovvero: "Sulla riforma costituzionale")



Onorevole Presidente, onorevoli colleghi senatori, illustri esponenti del Governo.

Le circostanze sono paradossali, e riempiono i cuori di tristezza e disillusione: il percorso della riforma costituzionale si sta svolgendo in un’atmosfera profondamente lontana dal clima che dovrebbe accompagnare un dibattito costituzionale.

La Costituente del 1946 è stato il momento più alto della nostra amata Repubblica. Allora si usciva da venti anni di dittatura, soprusi e violenza, nonché dalla devastazione della Seconda Guerra Mondiale; gli spiriti, stremati ma al contempo ricolmi di quella speranza generata dal sole che, all’alba di una nuova era, si leva tra le macerie, erano preparati al confronto sano ed allo scambio di opinioni senza arroganza e strafottenza: sano confronto e genuino scambio di opinioni da cui soltanto può derivare una riflessione approfondita e ponderata, in mancanza della quale nessun grande risultato è stato mai raggiunto, nessuna grande opera è stata mai realizzata.

Lo spirito umano dà il meglio di sé nelle situazioni di difficoltà, quasi fosse un meccanismo della conservazione delle specie. Nel 1946, dalle rovine post-belliche emersero le migliori energie intellettuali di cui un Popolo è capace. L’Assemblea Costituente (eletta con metodo proporzionale, sempre bene ricordarlo) ci ha lasciato in eredità una Carta meravigliosa, completa ed equilibrata, un vero e proprio monumento all’intelligenza ed al senso civico umano. Il ricordo dell’Assemblea Costituente del 1946 è qualcosa che ci deve riempire di nostalgia e di orgoglio: nelle nostre arterie e nelle nostre vene scorre lo stesso sangue dei nostri padri costituenti.

Le circostanze storico-economiche sono tuttavia cambiate, e con esse è mutato il clima socio-culturale che tutti ci avvolge ed influenza. Il sangue che scorre in noi è quello dei nostri padri costituenti, eppure qualcosa nel codice genetico della nostra cultura è mutato. I presupposti ed i principi con cui pensiamo lo Stato ed il nostro stare insieme sono cambiati, e laddove non sono cambiati si sono affievoliti e marciti nell’acquiescenza collettiva, al punto che ormai le nuove generazioni si sentono prive di punti fermi. Non abbiamo più un terreno solido su cui camminare ad occhi socchiusi, ormai crollate sono tutte le Colonne d’Ercole che un tempo ci garantivano limiti ideali e sicuri criteri di valutazione.

Abbiamo smarrito la bussola della politica, non si sa più da che parte stiano la “sinistra” e la “destra”, e termini come “progressismo” e “conservatorismo” hanno perso tutti i loro significati.
Smarrite le nozioni morali e tutto il bagaglio di principi filosofico-politici necessari ad una sana prassi politico-istituzionale, non possono che emergere criteri utilitaristici e valutazioni sommarie di realtà e disegni riformatori della realtà.

In circostanze come queste, è inevitabile che il dibattito costituzionale si areni nel deserto della critica improduttiva e della strafottenza politica.

Onorevoli colleghi, illustri esponenti del governo, è difficile immaginare un dibattito costituzionale più basso e volgare di quello che ci troviamo ad affrontare. Gli accordi in segrete stanze tra Partito Democratico e Forza Italia hanno ridotto il dibattito parlamentare ad un finto scambio formale di opinioni. Non solo: abbiamo assistito, in questi mesi, al più grande atto di delegittimazione delle opinioni altrui da decenni a questa parte. I portatori di istanze politiche e principi costituzionali differenti sono stati trattati non come autorevoli e legittimi esponenti di una cultura politica differente, cosa che qualsiasi cultura democratica e liberale dovrebbe garantire, ma come “gufi” e poltronisti desiderosi di mantenere uno status quo a loro favorevole. Viene da sé che ogni status quo è favorevole a qualcuno e sfavorevole a qualcun altro, ma svilire le posizioni diverse sulla base di una presunta “conservazione dello status quo” è un argomento artificioso che avrebbe fatto vergognare anche il più meschino dei membri dell’Assemblea costituente. Non solo le opposizioni, ma anche autorevoli membri delle forze di maggioranza sono stati messi nell’angolo e delegittimati con ogni mezzo, e non si è voluto ascoltare neppure quando le cose dette erano oneste ed intelligenti.
Da allora, viviamo nel regno della strafottenza e del dogma: le posizioni della maggioranza sono divenute un totem incontestabile e neppure criticabile, e nuovi eserciti di fedeli devoti hanno affollato le stanze ed i circoli di partito. Ci troviamo davanti ad un pensiero unico che ha origine democratica e non autoritaria: ma sempre di pensiero unico si tratta, e sempre di un pericolo per la democrazia liberale si tratta, in quanto potenzialmente in grado di sfociare in una vera e propria "dittatura della maggioranza".

Come inevitabile conseguenza, la discussione ed il merito delle questioni è sparito dalle aule e dalle commissioni, invase da migliaia di emendamenti da parte di opposizioni messe nell’angolo della delegittimazione ed incapaci di apportare contributi positivi. Come avrebbero potuto, come potrebbero ora? Ogni contributo non conforme alla linea della maggioranza è un contributo per definizione negativo, è un “gufaggio”. Non era questa la prassi dell’Assemblea Costituente, non era questa l’etica dei padri costituenti. Ogni momento passato a proseguire su questa linea, è un momento speso per distruggere lo spirito che dovrebbe accompagnare ogni riforma costituzionale.

E’ proprio questo clima, fatto di strafottenza e disprezzo del dibattito, che ci impone di valutare nel merito le questioni. E’ necessario effettuare una profonda e ponderata riflessione sul nostro sistema politico, sui suoi meccanismi di funzionamento (e, soprattutto, non funzionamento) e sui cambiamenti derivanti dalla riforma costituzionale attualmente in “dibattito”.

Andiamo per punti. Innanzitutto, il superamento del bicameralismo perfetto. Tutti gli impianti costituzionali si trovano a che fare con due esigenze fondamentali: garantire un’azione di governo efficace, ed al contempo tutelare le esigenze delle minoranze. Il bicameralismo italiano si proponeva di mediare tra queste due esigenze sulla carta inconciliabili: il doppio vaglio delle leggi permetteva un rallentamento nei cambiamenti del sistema giuridico e dello Stato nelle sue varie sfaccettature, ma in presenza in una maggioranza nelle due Camere un’azione di governo era resa comunque possibile. Se si dovesse dare un giudizio sul bicameralismo perfetto, esso crea le condizioni più per l’immobilismo che per il riformismo. La discesa di Renzi nella scena politica ha reso il riformismo cosa intrinsecamente positiva e necessaria, e alla luce della situazione italiana, come dargli torto? Tuttavia, quando si ha a che fare con la Costituzione, è alla teoria ed ai principi che bisogna in primo luogo guardare. La fine del bicameralismo è la fine del doppio vaglio delle leggi, e la fine del doppio vaglio delle leggi coincide con la possibilità, di cui probabilmente non abbiamo ancora piena consapevolezza, di un mutamento repentino del sistema legislativo e dell’assetto dello Stato in conseguenza del mutamento delle maggioranze parlamentari.
Se è dunque più facile rinnovare i codici penale e civile ed ottenere, ad esempio, nuove conquiste in materia di diritti civili, è anche più facile restaurare gli ordinamenti del passato.
Il monocameralismo che verrà velocizza dunque le procedure parlamentari e facilita il “cambiamento”, positivo o negativo che sia. 

C’è un’altra prospettiva da cui valutare vantaggi e svantaggi del bicameralismo: è quella che muove dalle caratteristiche dell’ambiente economico in cui lo Stato italiano si trova ad agire quale competitore di altre realtà nazionali. Il panorama non è mai stato così turbolento: le circostanze cambiano velocemente, e periodi di crisi e crescita economica si succedono con velocità allarmante. Ciò impone agli Stati di dotarsi di una struttura istituzionale in grado di fargli attuare rapidamente riforme strutturali, così da adeguarsi ai cambiamenti dell'ambiente esterno ed acquisire posizioni di vantaggio competitivo sui mercati. Anche pochi mesi di anticipo rispetto ad altri Stati, relativamente ad esempio all’adozione di misure di abbassamento delle tasse ed agevolazioni alle imprese, può significare differenze abissali in termini di entità di investimenti e ricadute occupazionali. Tutto questo può non piacere, ma ci troviamo in una realtà economico-finanziaria che “impone” flessibilità, pena il collasso del sistema Italia.
Riformare l’intero sistema economico-finanziario è di una importanza vitale, soprattutto per noi che ci chiamiamo “sinistra”, ma farlo ora ed in queste condizioni è sinceramente impossibile. Cancellare il bicameralismo perfetto significa dimezzare i tempi di approvazione delle leggi, e dunque velocizzare l’Italia accrescendo potenzialmente la sua competitività sui mercati.

Sono evidenti dunque le opportunità di cambiamento e rinnovamento che si aprono per il nostro Paese, ma anche i rischi ed i pericoli che corriamo con una gestione irresponsabile delle istituzioni e del mandato rappresentativo. Basti pensare al disegno di legge sulla stretta alle intercettazioni, la famosa “norma bavaglio”, che dopo essere stata approvata alla Camera nel 2008, fu stoppata al Senato. Senza il bicameralismo, oggi la “norma bavaglio” sarebbe legge. In conseguenza della riforma del bicameralismo perfetto è necessaria di conseguenza una riforma del sistema mediatico, che garantisca in modo pieno il diritto ad un’informazione plurale ed indipendente. La maggiore velocità nell’approvazione delle leggi necessita infatti una maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica, che deve sapere in modo tempestivo cosa cambia e come cambia. Senza un’opinione pubblica attenta ed informata, i rischi derivanti dal monocameralismo sono maggiori dei vantaggi che esso consente.

In conseguenza della riforma del bicameralismo è necessario anche un secondo elemento: la tutela delle minoranze politiche. E vengo così al secondo punto: la riforma della legge elettorale, con le sue conseguenze sul panorama politico.
L’Italicum, così come è attualmente congegnato, cancella i diritti delle minoranze. Garantisce non soltanto un’azione di governo sicura grazie al premio di maggioranza, ma annulla anche la rappresentanza per i partiti che non raggiungano l’8%. Si tratta di una soglia di sbarramento assolutamente troppo alta, in relazione sia alla media europea (3-4%) sia alle esigenze del nostro assetto istituzionale. Onorevoli colleghi, chiedo di aprire una riflessione su questo punto: se la legge elettorale garantisce un vincitore con una maggioranza parlamentare, e dunque un’azione di governo sicura, che bisogno c’è di cancellare la rappresentanza dei partiti più piccoli? Perché dare un duro colpo al principio di rappresentanza, proprio in un momento storico in cui i cittadini chiedono più democrazia, più partecipazione, più possibilità di intervento sulla politica nazionale?
Con la riforma del bicameralismo e la velocizzazione delle procedure parlamentari, la forza della maggioranza di governo viene accresciuta. Davvero vogliamo, in parallelo, diminuire la forza delle minoranze parlamentari? Davvero vogliamo, dopo aver aumentato la forza del potere esecutivo, toglierci dai piedi i pareri e gli ostruzionismi delle minoranze, che di per sé hanno una connotazione neutra? Ricordo ai colleghi che nella storia della nostra Repubblica l’ostruzionismo, consentito dal bicameralismo e da leggi elettorali non maggioritarie, ha consentito grandi battaglie politiche che tutti abbiamo vissuto come un elemento positivo da preservare.
Non riesco a dare una risposta convincente a queste domande che non sia la volontà di costringere l’Italia al bipolarismo, proprio quell’Italia frammentata in una miriade di realtà politiche, sociali ed economiche differenti.

Se dovessimo adattare le istituzioni alle caratteristiche socio-politiche dell’Italia, dovremmo attuare una riforma che decentralizzasse l’amministrazione, che aumentasse le autonomie locali, che ponesse come principio primo e fondamentale quello della rappresentanza delle minoranze. E’ un problema che ci tiriamo dietro dal 1861, quando l’allora governo Ricasoli decise di centralizzare l’amministrazione, e costruire così in maniera artificiosa lo Stato italiano, che nella triste realtà dei fatti era e rimane tuttora più una unione di piccole realtà territoriali e culturale e centri locali di potere che uno “Stato” nel vero senso della parola.

Invece, onorevoli colleghi, si procede nella direzione opposta: con la riforma del Titolo V lo Stato si avoca numerose competenze in precedenza lasciate alla concorrenza con le Regioni, e con l’Italicum si cancella la rappresentanza dei partiti più piccoli; si attua un accentramento che è insieme politico ed amministrativo.
I tempi, come già ho avuto modo di dire, lo richiedono: la crisi economica e lo stato delle finanze richiedono un’amministrazione centralizzata efficiente, e non possiamo più permetterci gli “sprechi” di un’amministrazione decentralizzata e lasciata, così per modo di dire, all’attuazione locale. La necessità delle circostanze non deve però spingerci a non vedere il problema, che si erge davanti a noi immenso, a patto che lo si voglia vedere: dalla discrasia tra accentramento politico-amministrativo e frammentazione dell’Italia potrebbero arrivare i più gravi e grandi problemi per il nostro Paese, se non assumiamo consapevolezza della questione e ci dotiamo di tutta la responsabilità politico-istituzionale di cui siamo capaci.

Infine, vengo all’ultimo punto: la svolta maggioritaria e, nel futuro prossimo, presidenzialista delle nostre istituzioni.
Onorevoli colleghi, la riforma attualmente in discussione non è di impianto squisitamente presidenzialista, ma è evidente che la direzione è quella. Il monocameralismo, unito all’Italicum, ci dà un assetto di poteri in cui il potere esecutivo è dotato di grande forza e maggiore autonomia rispetto al passato, e si corre il rischio (in una realtà socio-politica malata di leaderismo) che la Camera dei Rappresentanti sia ridotta al triste ruolo di “dire di sì” ai disegni di legge del Governo. Con i listini bloccati sono i partiti a decidere la composizione della Camera, e se nei partiti sono presenti dei leader carismatici in grado di comporre a proprio piacimento le liste, in seguito alle elezioni avremo un Presidente del Consiglio a capo di un Consiglio dei Ministri che presenta leggi ad una maggioranza parlamentare che non avrà alcun interesse a mettere in difficoltà l’esecutivo, in quanto deve la propria poltrona proprio al Presidente del Consiglio.

Quest’ultima che ho delineato non è una conseguenza diretta dell’Italicum, onorevoli colleghi: esisteva già prima, ma è un meccanismo che l’Italicum ed il monocameralismo aggravano senza vie d’uscita. Il sistema delle preferenze potrebbe eliminare il problema, ma se ne verrebbe a creare un altro: l’eliminazione del finanziamento pubblico alla politica, in un sistema con le preferenze, consegna tendenzialmente i seggi parlamentari ai ricchi ed ai lobbisti. Cancellare il finanziamento pubblico ai partiti è stato uno degli errori più grossi di questa legislatura, e ne pagheremo drammaticamente le conseguenze nei decenni a venire: senza i contributi pubblici ci troviamo a decidere tra le seguenti alternative: avere un parlamento di nominati, oppure un parlamento di ricchi e lobbisti.

Come vedete, onorevoli colleghi, quando entriamo nel merito delle questioni ci imbattiamo in innumerevoli problemi e complicazioni, ed ignorarli semplicemente non affrontando il dibattito è un modo puerile per cadere negli errori peggiori.

Vi chiedo, onorevoli colleghi, di affrontare in modo analitico la questione del sistema da adottare, se tendente al proporzionalismo ed ispirato al principio di rappresentanza oppure tendente al maggioritarismo e dunque ispirato al principio di governabilità. E’ di importanza vitale farlo, perché ci consente di distinguere tra la genuinità della teoria e la drammaticità della realtà dei fatti, e ci consente dunque di dotarci del necessario realismo e pragmatismo per affrontare la questione.

La teoria ci dice, infatti, che “democrazia” fa rima con “rappresentanza proporzionale”: la democrazia rappresentativa ideale prevede un sistema proporzionale puro, in cui i seggi vengono assegnati in funzione della percentuale di voti ed i rapporti di forza tra le varie delegazioni parlamentari si creano sulla base dei rapporti di forza tra le varie componenti politiche e sociali dell’elettorato. In caso non ci sia maggioranza assoluta di una forza parlamentare o di una coalizione, si creano i governi di larghe intese, i quali (sempre in un’ottica squisitamente teorica) sono l’espressione più pura e sopraffina della democrazia rappresentativa: chi non ha la forza per governare, deve collaborare con gli avversari.

Per funzionare, questo sistema “ideale” richiede grande senso civico nei cittadini e rappresentanti, nonché grande cultura democratica in tutta la popolazione. Proprio ciò che manca alla nostra Italia, onorevoli colleghi: le “larghe intese” sono sempre valutate come il male assoluto, ed abbiamo ormai da tempo perso la disponibilità al confronto ed alla collaborazione. Di più: nei decenni che sono alle nostre spalle, il sistema tendenzialmente proporzionale di molte leggi elettorali (il Porcellum tra le ultime) è stato l’elemento che ha causato la perdita di fiducia dei cittadini nei confronti di partiti ed istituzioni: è ciò che ha causato la crisi della politica.
Gli elettori, infatti, hanno ripetutamente votati programmi elettorali di partiti che, incapaci di ottenere la maggioranza assoluta, si sono trovati nella necessità di formulare programmi di governo (di larghe intese) diversi da quelli presentanti ai cittadini. Da qui la delusione crescente nell’elettorato, la consapevolezza dell’impossibilità di svolte radicali, la crescente percezione di assenza di differenza tra destra e sinistra: in poche parole, il proporzionalismo ha causato, in Italia, la nascita dell’antipolitica.

Sebbene contrario alla democrazia ideale che tanto piace alle opposizioni, democrazia rappresentativa proporzionale che è e resta una forma ideale priva di applicazione concreta per il semplice motivo che non siamo in grado di realizzarla e la conformazione politica italiana non lo consente, la svolta maggioritaria dell’Italicum è da accogliere con grandissima gioia e soddisfazione: finalmente darà un vincitore certo, finalmente darà un’azione di governo certa e coerente con il programma scelto e votato dal cittadino.

Onorevoli colleghi, il sistema maggioritario è ciò che serve all’Italia oggi, sulla base della sua conformazione politica interna e sulle caratteristiche dell’ambiente economico internazionale: c’è bisogno di governi che diano stabilità e coerenza d’azione al Paese. Avere un programma di governo stabile consente anche di valutarne con maggiore facilità la rispondenza alle esigenze del Paese, e la capacità dei governanti che si trovano a realizzarlo: il sistema maggioritario semplifica la vita al cittadino, che sa cosa vota, chi vota, e chi è l’eventuale responsabile di un eventuale fallimento.

Il sistema maggioritario è dunque da concepire, in questo momento storico, come una stella polare che ci indica la via. Su questo punto fermo dobbiamo far leva per affrontare nel merito tutte le altre questioni e risolvere tutti i problemi che si pongono alla nostra attenzione: le questioni della tutela e della rappresentanza delle minoranze, della necessità di un sistema mediatico indipendente dalla politica, della vitale importanza di un’opinione pubblica attenta e critica verso l’azione di governo.

Spesso, sia fuori che dentro quest’aula, ho sentito parlare di “fine della democrazia”. E’ questa una delle più grandi colpe delle opposizioni: ridurre la questione ad una semplice considerazione lapidaria, annullando ogni possibilità rimasta di dibattito e di approfondimento.
Ebbene, la democrazia non finisce con questa riforma costituzionale: la democrazia cambia, ma non muore. Essa, al contrario, riceve colpi mortali ogni volta che l’opinione dell’altro viene sminuita, svilita e delegittimata sulla base di argomenti che nulla hanno a che fare con il merito delle questioni.
E’, questa, una verità che dobbiamo tutti quanti, tutti, recuperare: se non recuperiamo la cultura del dibattito e della critica, se non recuperiamo il piacere di discutere e di arrivare anche ad eventuali compromessi, tutto è perduto e non c’è più speranza per nessuno di noi.

giovedì 8 maggio 2014

M5S primo partito tra i giovani: un segnale preoccupante



Secondo uno studio del giornale “Corriere della Sera”, il Movimento Cinque Stelle è il primo partito tra i “giovani”.
E’ un segnale preoccupante. Le nuove generazioni sono la vittima principale di un sistema socio-economico che si è impossessato, dagli anni ’60 in poi, di tutta la ricchezza a disposizione di Stati e privati per i prossimi decenni. I contratti statali a tempo indeterminato sono un miraggio per noi giovani, ed i privati non hanno più soldi da investire nell’occupazione, perché questi soldi sono tutti confluiti nei grandi gruppi finanziari in seguito alle politiche neo-liberiste di tatcheriana e reaganiana memoria.
Le nuove generazioni nutrono un legittimo risentimento nei confronti del “sistema”, ed una legittima aspirazione a migliori condizioni di vita. Tuttavia, manca il metro di giudizio necessario a capire quali soluzioni sono da adottare a livello politico per ottenerle.
Alcune forze politiche lavorano sull’intelligenza: a problemi difficili, quali quelli cui ci mette di fronte l’attuale crisi economica, seguono riflessioni “tecniche” approfondite da cui scaturiscono soluzioni inevitabilmente complesse: il sistema così com’è è da cambiare, ma sono da cambiare alcune delle sue parti, e non c’è nessuna “rivoluzione” da compiere.
Altre forze politiche invece, tra cui il M5S, lavorano sulla “pancia” della gente: il sistema non funziona, il sistema è da abbattere. Poco importa che le soluzioni proposte siano inattuabili (tipo abolizione del Fiscal Compact o adozione degli Eurobond, se ad essi corrisponde un’uscita dall’Euro) o addirittura causa di un peggioramento delle condizioni di vita (ad esempio, uscita dall’Eurozona): sono soluzioni più facili da capire per il cittadini medio, e da qui deriva il loro successo.
Nei confronti delle nuove generazioni, era legittimo nutrire una speranza: che le migliori condizioni materiali rispetto al passato avrebbero portato ad una crescita socio-culturale; si nutriva la legittima speranza, cioè, che davanti ad un mondo globalizzato e complesso i sistemi dell’istruzione avrebbero portato ad una maggiore consapevolezza, da parte delle nuove generazioni, dei problemi e delle soluzioni da adottare per risolverli.
Questa speranza è risultata vana. Soprattutto in Italia, viviamo in mezzo alle macerie della cultura e dell’istruzione: non a caso Pompei cade a pezzi.
La storia ci insegna che in questi periodi di crisi economica e culturale i movimenti populisti, nazionalisti ed estremisti prendono il sopravvento, marciando sull’ignoranza e sulle difficoltà dei cittadini.
Questo sta avvenendo ai nostri giovani. E’ un segnale preoccupante.

giovedì 7 novembre 2013

Il ventennio berlusconiano: una breve sintesi



Tante cose vengono dette e ripetute a proposito dell'epoca berlusconiana, eppure mi sembra che l'elemento che la contraddistingue sia sempre ignorato. Quell'elemento risiede nel termine "libertà" che compare nel nome del partito: la domanda fondamentale che dobbiamo porci è "che libertà è quella del Popolo della Libertà"?

La tendenza politico-culturale del nostro tempo spinge verso l'estraniazione dalla sfera politica, per trovare rifugio una sfera privata cui il benessere del nostro secolo ha dato mille comodità, mille piaceri, addirittura la possibilità attraverso internet e la TV di avere un contatto con il mondo, senza essere realmente nel mondo. La destra in questi anni ha colto perfettamente questa tendenza, l'ha incentivata e l'ha spinta fino alle conseguenze più dannose per lo Stato. L'italiano non vuole semplicemente godere in pace nella propria casa, vuole godere in pace libero dalle leggi, dai vincoli della burocrazia, dalle esigenze della comunità. Berlusconi ha stretto un nuovo contratto sociale, se così lo si può definire: "lasciatemi compiere tutte le malefatte di cui sono capace, corrompere giudici, evadere il fisco, stringere patti con la mafia; in cambio del vostro silenzio io vi esonererò dalla necessità di uscire di casa e condurre la macchina statale, anzi questa macchina statale cercherò di ingolfare e danneggiare in ogni occasione. Lasciatemi libero di corrompere, e potrete farlo anche voi; lasciatemi libero di evadere, e potrete farlo anche voi; lasciatemi libero dai vincoli della legge, e lo sarete anche voi". 

Un contratto sociale che ha distrutto tutti i legami della società, in nome di una libertà che non saprei come definire se non come "anarchica". Qui il paradosso più grande, ma che forse è un paradosso soltanto per chi non è calato all'interno di questa mentalità: il voto dato al leader autorevole, al capo di un esercito parlamentare di mussoliniana memoria, è un voto dato all'anarchia.

venerdì 27 settembre 2013

L'inopportunità di Barilla sulla comunità LGBT



Guido Barilla, noto industriale italiano, intervistato a "La Zanzara", ha affermato: 

"
Non faremo pubblicità con omosessuali, perché a noi piace la famiglia tradizionale. 
Se i gay non sono d'accordo, possono sempre mangiare la pasta di un'altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri"

(Per chi volesse sentire l'intervista completa, rimando a: http://www.youtube.com/watch?v=lshUnKkNH5A
).


Personalmente, trovo l’affermazioni di Barilla totalmenta inopportuna. Non è questione di condividere o meno la sua posizione, e neppure di mettere in discussione la libertà di pensiero e di parola.

E’ questione solo ed unicamente di opportunità.

Mi spiego: fosse una opinione scambiata a cena con i parenti, o al mulino con Banderas, nessun problema; si tratterebbe di una personalissima opinione fatta in un contesto privato, opinione condivisibile o meno, ma rispettabile. Nessuno intende mettere in discussione la libertà individuale di espressione delle proprie idee.
Tuttavia, nel momento in cui decide di esprimere quella stessa opinione a “La Zanzara”, programma oltretutto noto per la sua capacità di diffusione di gaffes, Barilla ha ampiamente scavalcato il limite che delimita l’ambito privato: si trova completamente immerso nell'ambito pubblico, e “fa politica”, volente o nolente, che ne sia consapevole o meno. Fa politica perché esprime un messaggio molto chiaro sulla società, che arriva agli orecchi di milioni di persone e che è in grado di modificare le loro opinioni.

Quando parlo di “inopportunità”, mi riferisco proprio a questo: in un Stato in cui la legislazione civile non tutela i diritti della società LGBT, ed in un contesto sociale in cui l’omosessualità è ancora percepita con sospetto, diffidenza e disprezzo, le parole di Barilla non si limitano ad esprimere la politica pubblicitaria della sua azienda, ma hanno grande influenza sulla mentalità della popolazione: portano acqua al mulino dell’omofobia, accrescono nei tradizionalisti la convinzione delle proprie idee, e di conseguenza il partito del “no ai diritti ai gay” si accresce nel numero dei suoi aderenti e nella forza del suo messaggio.

Barilla, in altre parole, non si limita a fornire informazioni sui contenuti delle proprie pubblicità, ma (probabilmente senza rendersene conto) irrompe con decisione nel dibattito pubblico sui diritti alla società LGBT.

Chiedo: abbiamo bisogno, in un paese che ha estrema difficoltà a civilizzarsi e ad accettare la diversità sessuale, di queste prese di posizione da parte di personaggi potenti ed influenti? La mia risposta è no.

Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri", ha affermato Barilla. 
Ecco, caro Barilla, sei in contraddizione con te stesso. Con le tue parole hai portato acqua al mulino del “no ai diritti alla società LGBT”. Non hai soltanto “infastidito” la comunità dei gay, hai fatto qualcosa di molto più grave: hai contribuito a disseminare di ostacoli il percorso dell’eguaglianza nella società italiana.

martedì 20 agosto 2013

"Blurred Lines" di Robin Thicke, o "La società occidentale"




Il testo parla da sé, ed è inutile commentarlo (qui potete leggere il testo tradotto). Ma il video, se possibile, fa anche meglio. Ritratto migliore della società occidentale attuale non si poteva realizzare.
Ci riferiamo, ovviamente, alla hit di questa estate, da oltre due mesi al primo posto nelle classifiche pop:
"Blurred Lines", di Robin Thicke ft. T.I., Pharrel.

(Guarda il video)

Nessun dettaglio è lasciato al caso: ogni elemento del video ha un preciso significato, è un simbolo.
C'è tutto: il maschio dominante con il suo "kit da caccia" a base di occhiali ed abiti tamarri; la donna semi-nuda costretta a starnazzare (in silenzio) per avere un ruolo di co-protagonista; la donna che presta servizio (e pongo l'attenzione sull'etimologia di "servizio", da "servire, servitù") all'uomo accendendogli la sigaretta (con un accendino rigorosamente enorme e falliforme, ovvio), uomo che poi le soffia il fumo in faccia, facendola tossire (quale rappresentazione migliore dell'abuso legittimato?); l'uomo che si prepara un cocktail a base di Remy Martin V, per chi non lo sapesse l'ultimo "modello" di Cognac realizzato dall'antico brand Remy Martin (come a dire: "siamo fighi e all'ultima moda anche in quello che beviamo"). Significativi anche gli abiti delle modelle nel video, a base di plastica da confezione, collane d'oro e scarpe rigorosamente altissime: così come troviamo i prodotti impacchettati nei supermercati, decorati con qualche dettaglio accattivante, abbiamo anche le donne-oggetto bell'e pronte ad essere utilizzate, con un paio di collane a fornirgli valore. Come a dire: il valore non è nella donna, ma in quello che (non) ha addosso, nel modo in cui si comporta con il maschio; e le scarpe alte stanno a significare il supporto necessario (funzionale all'aspetto, ovvio) alla donna per essere ai livelli del maschio.

Insomma, un riassunto della mentalità capitalista e sessista ai massimi livelli: l'uomo intraprendente vincente e la donna oggetto da selezionare sugli scaffali dei grandi magazzini della società.
A proposito: nel video compare anche un agnello, a ricordarci che questa visione "maschiocratica" viene perfettamente legittimata dal cattolicesimo.

mercoledì 15 maggio 2013

L'incoerenza di Casaggì: squadrismo no, squadrismo sì



Stamattina nel polo universitario di Novoli ci sono stati scontri tra militanti di Casaggì e del Collettivo di Scienze Politiche. Questo il comunicato emesso dal blog ufficiale di Casaggì:

"CASAGGì: SCONTRI AL POLO DI NOVOLI PER ELEZIONI UNIVERSITARIE.
CINQUANTA MILITANTI DELLA SINISTRA ANTAGONISTA ARMATI DI CASCHI E CATENE AGGREDISCONO SETTE MILITANTI DI CASAGGì. FAR-WEST DI MEZZOGIORNO TRA CENTINAIA DI STUDENTI. GLI AGGRESSORI, QUASI TUTTI ARMATI, HANNO AULE CONCESSE DAL RETTORE E HANNO CONVOCATO SERVIZI D’ORDINE ESTERNI ALL’UNIVERSITA’. UN FERITO ACCERTATO TRA I NOSTRI ATTIVISTI E LA CERTEZZACHE CONTINUEREMO A DIFENDERE LE NOSTRE IDEE E I NOSTRI DIRITTI A QUALSIASI COSTO."


Mi permetto di spendere due righe sull’evento.

Cari militanti di Casaggì, desidero esprimere piena solidarietà per quanto vi è successo. L'azione squadrista è una modalità orribile dell’attività politica, e quando un gruppo (a prescindere dal colore) si esprime con la violenza non si può che esprimere profonda solidarietà nei confronti delle vittime.
Tuttavia, cari militanti di Casaggì: quando vi trovate in una situazione come quella odierna, ricordatevi che il periodo storico ed il movimento che sostenete, inneggiate e cercate di portare alla ribalta storica utilizzava esattamente questi metodi violenti e squadristi, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Per quanto indubbiamente si condannino azioni come queste, non ci si può che vedere tanta, troppa contraddizione: vi lamentate delle azioni squadriste proprio voi che il 25 aprile siete andati a portare fiori sulle tombe dei caduti della Repubblica Sociale di Salò, ovvero sulle tombe chi faceva dell'azione squadrista e della violenza il suo metodo politico ordinario e quotidiano.
Bene, benissimo condannare lo squadrismo: ma allora si dimostri coerenza, e si condanni lo squadrismo di ogni epoca storica: non solo quello che si subisce il giorno 15 maggio 2013 da parte della “sinistra antagonista”.
Non mi sembra, sinceramente, che lo facciate, quando salutate “alla romana” e esponete simboli fascisti.
Non lamentatevi se vi succedono cose che quelle odierne: e' purtroppo la diretta conseguenza delle opinioni storico-politiche che sostenete.



venerdì 3 maggio 2013

No ai diritti ai gay: perché?



Il 23 Aprile 2013 l'Assemblea Nazionale francese ha ufficialmente dato il via libera, con 331 voti a favore e 225 contrari, al provvedimento che legalizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso e l'adozione da parte di famiglie composte da coniugi omosessuali.
I partiti di opposizione hanno immediatamente annunciato il ricorso alla Corte Costituzionale; in piazza, a Parigi, si sono verificati scontri tra manifestanti e forze dell'ordine, dopo giorni di mobilitazione popolare per affermare il "no" alle nozze gay.

Non è che uno (certo, forse il più eclatante) degli eventi che hanno riacceso il dibattito sulla legittimità dei matrimoni tra omosessuali. Il mondo conservatore, non solo francese, ribadisce continuamente la propria assoluta contrarietà nei confronti delle nozze gay (per non parlare delle adozioni): in base a che argomenti lo fa? 
In questo articolo ci proponiamo di analizzare le argomentazioni "tipo" del conservatore doc a sostegno del proprio rifiuto nei confronti dei matrimoni omosessuali; la discussione relativa al tema delle adozioni è rimandata ad un'altra sede, in quanto estremamente più lunga e complessa.

Premessa: l'espressione "conservatore doc" non vuole avere alcun significato dispregiativo. Utilizzo tale espressione per indicare una sorta di "minimo comun denominatore" della mentalità conservatrice.

Gli argomenti solitamente proposti dal conservatore doc sono due, il secondo dei quali a sua volta ramificato in due ulteriori argomentazioni:
- perdita dell'identità culturale nazionale, imperniata su nuclei familiari composti da individui di sesso opposto; - "innaturalità" del matrimonio gay, conseguente alla 1. "innaturalità" dell'omosessualità; 2. concezione del matrimonio come "unione coniugale con fine riproduttivo".

Analizziamo nel dettaglio questi argomenti, valutando quanto effettivamente contengano di vero e quanto invece derivi da pregiudizi (in larga parte religiosi) sulla natura dell'uomo, della società e della realtà.

Per quanto riguarda il primo argomento, secondo il conservatore doc la legalizzazione dei matrimoni tra omosessuali porterebbe alla perdita dell'identità culturale, incentrata su famiglie "tradizionali": la motivazione principale per negare agli omosessuali la possibilità di sposarsi, dunque, deriverebbe dal semplice fatto che "nel passato ciò non era possibile". Che dire, il più chiaro manifesto del conservatorismo: perché dire di no alla "novità"? perché è innovativa!
E' evidente come questo in realtà non sia un "argomento" nel vero senso della parola, ossia una motivazione reale e persuasiva, ma soltanto una presa di posizione (a prescindere) del tutto immotivata, o meglio: motivata da una implicita "sacralizzazione" ed assolutizzazione della tradizione. E' tutto da dimostrare, tuttavia, che la tradizione sia "sacra" (qualsiasi cosa questo voglia dire), assoluta e da difendere ad ogni costo. Il conservatore doc, in questo senso, ci deve spiegare su che basi afferma la "sacralità" della tradizione: in altri termini, su che base afferma che l'assetto tradizionale di una società sia l'Assetto (con la "a" maiuscola) della società in generale. Dare una risposta soddisfacente a tale questione è molto complesso: di fatto, due millenni di riflessione filosofica non ci sono riusciti. E' la vecchia storia della nietzscheana "morte di Dio": una volta compreso che la concezione religiosa tradizionale non è una lettura della "trama del cosmo", non è la Verità con la "v" maiuscola, per intenderci,  ma soltanto una personale posizione sulla realtà (un semplice punto di vista, insomma), affermare che l'assetto di una società rispecchia l'ordine delle cose (naturale o voluto da Dio, è indifferente) risulta impossibile.
Di conseguenza, la posizione intellettualmente più onesta che possiamo e dobbiamo assumere, pena l'affermazione di tesi infondate, è una posizione laica: la società ha il particolare assetto che ha non perché tale assetto rispecchia un qualche ordine inscritto nell'universo o voluto da Dio, ma "perché gli uomini hanno deciso così". L'assetto della società, con tutti i suoi costumi e le sue "istituzioni" (nel senso di modelli di comportamento che si sono affermati nel tempo divenendo la normale vita quotidiana delle persone) non è qualcosa di "oggettivo", bensì di "convenzionale": il fatto che in un Paese vigano determinate usanze ed istituzioni è un fatto che deriva dalla combinazione di fattori sia storico-geografici sia casuali. Pertanto, la tradizione deve essere concepita come una entità generatasi casualmente, in base alle condizioni storico-geografiche di un dato paese ed alle necessità di una data popolazione, ed aperta a modificazioni: non certo come un qualcosa di assoluto e dato una volta per tutte. Chi afferma che la tradizione deve essere difesa a tutti i costi, semplicemente perché "è la tradizione", lo fa senza fornire giustificazioni valide. 

(Intendiamoci: difendere la tradizione per interessi personali, economici o politici che siano, come nel caso dell'opposizione all'abolizione della schiavitù, non è una giustificazione valida. Qui stiamo parlando di prese di posizione sulla base di un ragionamento imparziale, politicamente neutro: e non sulla base di prese di posizione, appunto, "politiche". Si può benissimo dire che "difendo la tradizione e rifiuto i matrimoni gay perché così voglio che sia la società in cui vivo", ma in tal caso bisogna avere l'onestà intellettuale di dire che si tratta di una posizione personale dettata dalla propria visione del mondo, e non dalla difesa di un ordine "oggettivo"; che tale imposizione del proprio punto di vista agli altri sia qualcosa di illegittimo è un altro conto, di cui discuteremo più avanti nell'articolo).

Il mio punto di vista, formulato sulla base di una prospettiva laica ed utilitarista sulla società, è che la tradizione non deve essere una "maglia di forza", bensì un sostegno utile ai cittadini. La tradizione, cioè, deve costituire un elemento accomunante, una sorta di "focolare" comune intorno a cui si raccoglie l'unità di un paese: e non deve certo essere un fattore discriminatorio e negatore di diritti ad una minoranza dei cittadini. I tempi cambiano, e con essi le esigenze e le rivendicazioni degli uomini; se la nostra identità culturale cristiana ci porta a negare diritti fondamentali a dei concittadini, la cui unica "colpa" è avere un orientamento sessuale difforme dalla media, è sicuramente una identità culturale non libertaria da rifiutare e combattere con tutte le forze. 


Per quanto riguarda il secondo argomento: il conservatore doc rifiuta la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso sulla base di due argomentazioni: la prima è che un matrimonio di questo tipo viene meno allo scopo "riproduttivo" che, a suo parere, l'unione coniugale dovrebbe avere; la seconda è che l'omosessualità è un orientamento sessuale "innaturale", una sorta di patologia psicofisica dell'individuo.

Vengo immediatamente a questa seconda argomentazione, così da sbarazzarcene una volta per tutte: l'omosessualità non è una malattia, ma un orientamento sessuale congenito di individui di qualsiasi specie, sia umana che animale. Negli ultimi quindici anni sono stati trovati fenomeni omosessuali in 1500 specie animali (per chi volesse farsi un'idea più precisa, rimando a questo link): alla faccia della "innaturalità" dell'omosessualità! 
E' inevitabile, perciò, chiedersi quale significato il conservatore doc dia al termine "natura", e che cosa di conseguenza interpreti come "naturale" e "innaturale". Viene da sé che "naturale" non può che significare "esistente in natura, intrinseco all'ordine delle cose": l'omosessualità, in questa prospettiva, è un fenomeno perfettamente "normale", in quanto è un orientamento sessuale che, appunto, si ritrova in natura; e la ricerca scientifica sta giungendo a dimostrare che l'orientamento sessuale di un individuo deriva dalla sua conformazione genetica, e che pertanto è una semplice configurazione di geni a determinare se egli avrà gusti "etero" o "omo". L'omosessualità, in poche parole, non è dovuta ad un malfunzionamento dell'organismo o ad una patologia psicologica, ma alla conformazione genetica. Cosa c'è di più "naturale" del DNA?

Tuttavia, il conservatore doc ignora tutto ciò, ed impone alla realtà il suo concetto di "natura", basato su un pregiudizio di derivazione religiosa. Quando afferma il carattere "innaturale" o, peggio, patologico dell'omosessualità, il conservatore doc manifesta la mentalità religiosa e dogmatica più spicciola, che assume come "naturale" ciò che è scritto nella Bibbia e tramandato dagli avi. Tuttavia, si tratta di un pregiudizio, un pericoloso pregiudizio, privo di fondamento reale e scientifico.

Tornando alla prima argomentazione: il conservatore doc è fermamente convinto che il matrimonio sia una istituzione finalizzata alla procreazione, e che dunque due persone omosessuali, impossibilitate a generare figli (per ovvie cause biologiche), non abbiano diritto a sposarsi.
Che dire, allora, di tutte quelle persone non feconde a causa di malattie congenite, o che semplicemente non vogliono avere figli per una scelta di vita? Non hanno forse anch'esse diritto a sposarsi? Immagino che il conservatore doc non gli negherebbe questa possibilità. Perché allora gli omosessuali non possono sposarsi? Perchè sono "omosessuali", forse?
Anche questo argomento, alla fine dell'analisi, risulta infondato e motivato da un pregiudizio nei confronti dei gay. Il matrimonio non è una istituzione "naturale", come crede il conservatore doc (l'uomo di Neanderthal era solito sposarsi? non credo), bensì una istituzione civile, cioè nata con la società. In quanto tale, è una entità soggetta a modificazioni, in linea con lo "spirito dei tempi": quello attuale spinge verso l'universalizzazione dei diritti, e non si vede perché si debba negare il diritto del matrimonio agli omosessuali, normalissimi cittadini che hanno uno dei due orientamenti sessuali previsti dalla natura.


Ritengo che la chiusura da parte dei conservatori all'estensione dei diritti ai gay abbia due motivazioni: una legata agli interessi di potere, l'altra ad un non ben identificato "timore" verso il cambiamento. Motivazioni implicite che si celano, come sempre è accaduto nella storia, sotto gli espliciti richiami alla "purezza" della tradizione ed alla integrità della religione cristiana.






mercoledì 10 aprile 2013

Il volto dell'omofobia





Questa foto vi fa schifo, vi suscita un sentimento di repellenza, vero?
Ecco, allora vi dovrebbe fare schifo anche l'omofobia: quest'uomo, Wilfred de Brujin, è stato picchiata a sangue perchè gay. La sua colpa? Camminare mano nella mano, nelle strade di Parigi, con il suo compagno. 

Condividi, in nome della lotta all'omofobia, all'ignoranza, al pregiudizio


martedì 9 aprile 2013

Stadi vuoti ed errori arbitrali: un sistema che funziona perfettamente



Il calcio è senza ombra di dubbio uno dei più straordinari (ed emblematici) fenomeni dell'Italia di oggi: ogni domenica migliaia di tifosi si recano allo stadio, e milioni di persone si piazzano davanti alla televisione sintonizzati sugli emittenti sportivi.
Il calcio è in grado di suscitare emozioni fortissime: ore ed ore in curva sotto la pioggia, giornate trascorse in fibrillazione ad aspettare la partita di Champions League, lunghe attese all'aeroporto ad aspettare la squadra di ritorno da una storica vittoria sul campo dell'odiata rivale; derby, sfottò, lacrime per una vittoria sfumata all'ultimo minuto. Il calcio è uno sport che suscita passioni immense, che il "profano" non potrà mai riuscire a capire.
Per milioni di italiani, la vita non sarebbe la stessa senza il calcio.

Una domanda, però, sorge spontanea: ne vale veramente la pena? Hanno veramente un senso tutte le energie emotive consumate ogni domenica, tutti le centinaia (quando non migliaia) di euro spese ogni anno per la propria squadra del cuore?

Questa domanda, perfettamente legittima, viene in mente ad ogni tifoso, ogni domenica sera, quando guarda la moviola delle principali trasmissioni sportive. Ogni settimana si assiste ad una quantità inquietante di errori arbitrali, che falsano l'esito delle partite e rendono nulli gli sforzi di giocatori ed allenatori che hanno preparato con meticolosità tattica il match della domenica.

"Tutti gli errori si compensano", è la frase più ricorrente dei vari commentatori. Nulla di più falso: chiunque segua con sufficiente attenzione il campionato italiano si rende conto perfettamente che, se è vero che molti errori sono casuali, ci sono delle squadre (solitamente quelle di alta classifica, su tutte Juventus e Milan) che vengono sistematicamente favorite dagli arbitraggi. La maggior parte delle squadre ha un saldo più o meno nullo dei punti guadagnati/persi a causa degli errori arbitrali: ma alcune squadre, ogni anno, si trovano ad avere molti più punti di quanto meriterebbero a causa dei fischi a favore.

Il fatto che pochi club ricevano un trattamento arbitrale favorevole è un caso, oppure risponde ad una precisa logica economica? Io provo ad effettuare la mia analisi, dati alla mano, per farvi capire quanto sia marcio il "Sistema calcio" e quanto esso abbia interesse che tutto rimanga così come è: ognuno di voi si formi la propria opinione.

Il calcio, soprattutto dopo i nuovi regolamenti sul tetto spese (che, al contrario di quanto potrebbe sembrare, sono dei provvedimenti estremamente "conservatori": nella impossibilità di attingere a fondi "esterni", i club medio-piccoli non potranno mai competere con i top club), deve essere concepito come un Sistema costituito non solo dalle società calcistiche e dai tifosi, ma anche (e soprattutto) dalle società televisive, dalle testate giornalistiche, dall'associazione degli arbitri e da tutte quelle aziende (di qualsiasi settore) collegate allo sport. Le società calcistiche, compresi tutti i tifosi e tutti i tesserati, non sono che una piccolissima fetta della grande "torta": per darvi una idea, nel campionato 2011-12 gli incassi totali delle società grazie agli stadi è stato di 73 milioni di euro, una cifra inferiore di 30 milioni alla somma incassata dalla Juventus FC per i diritti televisivi nel 2012-13 (103 milioni). 
(Se volete farvi un'idea più precisa della assoluta irrilevanza degli incassi da stadio rispetto a quelli dei diritti televisivi, vi do due link: qui i dati ufficiali relativi agli incassi-stadio, qui quelli relativi ai diritti tv).

Come appare immediatamente dalle somme di denaro stanziate, ciò che conta nel Sistema calcio non sono gli spettatori presenti negli stadi (che pure sono il cuore pulsante dello sport), ma i milioni di telespettatori piazzati davanti alla TV. Al vertice del Sistema vi sono dunque le aziende televisive (Sky e Mediaset Premium su tutti) e, molti gradini sotto, le testate giornalistiche (soprattutto sportive): sono i due elementi che, infatti, hanno più interesse a che il Sistema calcio funzioni, in quanto un campionato di alto livello e seguito da un numero maggiore di spettatori significa più incassi, in termini soprattutto di pubblicità. Ma non sono certo gli unici: tutto il meccanismo degli sponsor, ad esempio, dipende dal rendimento delle squadre a livello nazionale ed europeo.

Chi comanda, dunque, sono le aziende televisive. Senza i soldi dei diritti televisivi, i club non potrebbero neanche lontanamente coprire le spese. Bisogna dunque chiedersi: quale è la situazione maggiormente preferibile dalle società televisive? In altri termini: quale è la situazione che permette alle aziende televisive di incassare più soldi grazie alle pubblicità?
Ovviamente: una situazione in un cui i club di alto livello (che dispongono di più tifosi, sparsi per tutta Italia, e dunque costretti a seguire le partite in TV) si piazzano nelle parti alte della classifica: questo in quanto il tifoso ha più interesse a seguire una squadra che lotta per vincere il campionato o per raggiungere un piazzamento in Champions League. Se poi spostiamo lo sguardo dal piano nazionale a quello europeo, la situazione è ancora più chiara: le aziende televisive e giornalistiche hanno più interesse che in Champions League o in Europa League vadano la Juve, il Milan ed il Napoli, piuttosto che il Catania, la Fiorentina ed il Cagliari: molto semplicemente perché, piazzati davanti al televisore il martedì o il mercoledì sera, vi sarà un maggior numero di tifosi, e ciò significa che i privati stanzieranno somme maggiori per avere uno spazio pubblicitario.
Discorso simile per quanto riguarda le testate giornalistiche: una Juventus che vince il campionato permette a Tuttosport di vendere più copie, per fare un esempio.

E' dunque facilmente intuibile che le società televisive e le testate giornalistiche hanno maggiori interessi che le squadre con più tifosi gravitino nelle parti alte della classifica: per il semplice fatto che, in tale modo, posso vendere il "prodotto" ad un maggior numero di utenti. 

Per quanto riguarda gli arbitri: nell'attuale Sistema calcio, gli errori arbitrali servono, sono necessari; di più: sono addirittura utili ed auspicabili. Per due motivi fondamentali: il primo è che gli arbitri, a livello di serie A, non sono più semplici direttori di gara, ma veicolatori di ricchezza: un semplice fischio in una direzione piuttosto che in un'altra è in grado di spostare una ingente quantità di milioni di euro: pensate semplicemente ad una sfida decisiva, nell'ultima giornata di campionato, che coinvolge due squadre in lotta per l'ultimo piazzamento utile in Champions League: un rigore, che decide il risultato finale, fischiato ad una delle due squadre sposta 20 milioni di euro alla squadra vincitrice.
Dal momento che gli errori arbitrali sono in grado di decidere la classifica di un campionato, e dalla classifica finale di un campionato dipende la quantità di milioni di euro incassati l'anno successivo dalle aziende televisive e giornalistiche (ma più in generale, da tutto il Sistema), è difficile, molto difficile pensare che gli arbitri siano pienamente autonomi nelle loro conduzioni di gara. Perciò, eliminare la possibilità degli errori arbitrali (con la moviola ad esempio, che guarda caso non riesce ad essere introdotta) significherebbe privare le aziende televisive della possibilità di massimizzare gli incassi pubblicitari. 
Il secondo motivo che rende gli errori arbitrali utili al Sistema riguarda non il piazzamento delle squadre ma l'audience dei vari programmi televisivi: come si riempirebbero ore ed ore di trasmissioni, senza le polemiche derivanti da partite condizionate da errori arbitrali? Una partita persa a causa di un rigore inesistente suscita indignazione e incazzatura da parte dei tifosi, che si collegano così su SkySport o sulla Rai per ascoltare le opinioni degli "esperti" e le dichiarazione al veleno del mister o del direttore sportivo della propria squadra.
Gli errori arbitrali fanno audience, ed alzano gli incassi pubblicitari: essi rispondono ad una chiara ragione economica.

Tutti i tifosi, soprattutto delle squadre di medio-bassa classifica, devono prendere atto di un deprimente fatto:  per quanto il sistema calcistico italiano appaia in crisi e mal funzionante, caratterizzato come è da una incompetenza arbitrale che non ha paragoni negli altri tornei e da stadi sempre più vuoti e fatiscenti, in realtà funziona perfettamente: le squadre con più tifosi vincono o ottengono buoni risultati, si classificano per le coppe europee, fanno incassare al mondo dei Media una quantità sempre maggiore di milioni di euro.
Chi comanda, le società televisive, ottiene esattamente ciò che vuole.

Pensare che lo status quo possa cambiare è una assoluta utopia. Il Sistema calcio funziona già perfettamente, perchè chi ha interessi economici ha già esattamente ciò che vuole.
L'unica soluzione sarebbe smettere di andare allo stadio, smettere di seguire la propria squadra in TV: ma è una scelta che nessuno di noi credo voglia fare. Così, la nostra passione sportiva (illusa, perchè ripone speranze in un campionato in cui non c'è competizione, in cui tutto è già deciso ad inizio anno) va ad alimentare il Sistema, che la sfrutta come un mezzo di guadagno. 
Sappiatelo.