martedì 30 settembre 2014

Discorso mai pronunciato di un Senatore della Repubblica (ovvero: "Sulla riforma costituzionale")



Onorevole Presidente, onorevoli colleghi senatori, illustri esponenti del Governo.

Le circostanze sono paradossali, e riempiono i cuori di tristezza e disillusione: il percorso della riforma costituzionale si sta svolgendo in un’atmosfera profondamente lontana dal clima che dovrebbe accompagnare un dibattito costituzionale.

La Costituente del 1946 è stato il momento più alto della nostra amata Repubblica. Allora si usciva da venti anni di dittatura, soprusi e violenza, nonché dalla devastazione della Seconda Guerra Mondiale; gli spiriti, stremati ma al contempo ricolmi di quella speranza generata dal sole che, all’alba di una nuova era, si leva tra le macerie, erano preparati al confronto sano ed allo scambio di opinioni senza arroganza e strafottenza: sano confronto e genuino scambio di opinioni da cui soltanto può derivare una riflessione approfondita e ponderata, in mancanza della quale nessun grande risultato è stato mai raggiunto, nessuna grande opera è stata mai realizzata.

Lo spirito umano dà il meglio di sé nelle situazioni di difficoltà, quasi fosse un meccanismo della conservazione delle specie. Nel 1946, dalle rovine post-belliche emersero le migliori energie intellettuali di cui un Popolo è capace. L’Assemblea Costituente (eletta con metodo proporzionale, sempre bene ricordarlo) ci ha lasciato in eredità una Carta meravigliosa, completa ed equilibrata, un vero e proprio monumento all’intelligenza ed al senso civico umano. Il ricordo dell’Assemblea Costituente del 1946 è qualcosa che ci deve riempire di nostalgia e di orgoglio: nelle nostre arterie e nelle nostre vene scorre lo stesso sangue dei nostri padri costituenti.

Le circostanze storico-economiche sono tuttavia cambiate, e con esse è mutato il clima socio-culturale che tutti ci avvolge ed influenza. Il sangue che scorre in noi è quello dei nostri padri costituenti, eppure qualcosa nel codice genetico della nostra cultura è mutato. I presupposti ed i principi con cui pensiamo lo Stato ed il nostro stare insieme sono cambiati, e laddove non sono cambiati si sono affievoliti e marciti nell’acquiescenza collettiva, al punto che ormai le nuove generazioni si sentono prive di punti fermi. Non abbiamo più un terreno solido su cui camminare ad occhi socchiusi, ormai crollate sono tutte le Colonne d’Ercole che un tempo ci garantivano limiti ideali e sicuri criteri di valutazione.

Abbiamo smarrito la bussola della politica, non si sa più da che parte stiano la “sinistra” e la “destra”, e termini come “progressismo” e “conservatorismo” hanno perso tutti i loro significati.
Smarrite le nozioni morali e tutto il bagaglio di principi filosofico-politici necessari ad una sana prassi politico-istituzionale, non possono che emergere criteri utilitaristici e valutazioni sommarie di realtà e disegni riformatori della realtà.

In circostanze come queste, è inevitabile che il dibattito costituzionale si areni nel deserto della critica improduttiva e della strafottenza politica.

Onorevoli colleghi, illustri esponenti del governo, è difficile immaginare un dibattito costituzionale più basso e volgare di quello che ci troviamo ad affrontare. Gli accordi in segrete stanze tra Partito Democratico e Forza Italia hanno ridotto il dibattito parlamentare ad un finto scambio formale di opinioni. Non solo: abbiamo assistito, in questi mesi, al più grande atto di delegittimazione delle opinioni altrui da decenni a questa parte. I portatori di istanze politiche e principi costituzionali differenti sono stati trattati non come autorevoli e legittimi esponenti di una cultura politica differente, cosa che qualsiasi cultura democratica e liberale dovrebbe garantire, ma come “gufi” e poltronisti desiderosi di mantenere uno status quo a loro favorevole. Viene da sé che ogni status quo è favorevole a qualcuno e sfavorevole a qualcun altro, ma svilire le posizioni diverse sulla base di una presunta “conservazione dello status quo” è un argomento artificioso che avrebbe fatto vergognare anche il più meschino dei membri dell’Assemblea costituente. Non solo le opposizioni, ma anche autorevoli membri delle forze di maggioranza sono stati messi nell’angolo e delegittimati con ogni mezzo, e non si è voluto ascoltare neppure quando le cose dette erano oneste ed intelligenti.
Da allora, viviamo nel regno della strafottenza e del dogma: le posizioni della maggioranza sono divenute un totem incontestabile e neppure criticabile, e nuovi eserciti di fedeli devoti hanno affollato le stanze ed i circoli di partito. Ci troviamo davanti ad un pensiero unico che ha origine democratica e non autoritaria: ma sempre di pensiero unico si tratta, e sempre di un pericolo per la democrazia liberale si tratta, in quanto potenzialmente in grado di sfociare in una vera e propria "dittatura della maggioranza".

Come inevitabile conseguenza, la discussione ed il merito delle questioni è sparito dalle aule e dalle commissioni, invase da migliaia di emendamenti da parte di opposizioni messe nell’angolo della delegittimazione ed incapaci di apportare contributi positivi. Come avrebbero potuto, come potrebbero ora? Ogni contributo non conforme alla linea della maggioranza è un contributo per definizione negativo, è un “gufaggio”. Non era questa la prassi dell’Assemblea Costituente, non era questa l’etica dei padri costituenti. Ogni momento passato a proseguire su questa linea, è un momento speso per distruggere lo spirito che dovrebbe accompagnare ogni riforma costituzionale.

E’ proprio questo clima, fatto di strafottenza e disprezzo del dibattito, che ci impone di valutare nel merito le questioni. E’ necessario effettuare una profonda e ponderata riflessione sul nostro sistema politico, sui suoi meccanismi di funzionamento (e, soprattutto, non funzionamento) e sui cambiamenti derivanti dalla riforma costituzionale attualmente in “dibattito”.

Andiamo per punti. Innanzitutto, il superamento del bicameralismo perfetto. Tutti gli impianti costituzionali si trovano a che fare con due esigenze fondamentali: garantire un’azione di governo efficace, ed al contempo tutelare le esigenze delle minoranze. Il bicameralismo italiano si proponeva di mediare tra queste due esigenze sulla carta inconciliabili: il doppio vaglio delle leggi permetteva un rallentamento nei cambiamenti del sistema giuridico e dello Stato nelle sue varie sfaccettature, ma in presenza in una maggioranza nelle due Camere un’azione di governo era resa comunque possibile. Se si dovesse dare un giudizio sul bicameralismo perfetto, esso crea le condizioni più per l’immobilismo che per il riformismo. La discesa di Renzi nella scena politica ha reso il riformismo cosa intrinsecamente positiva e necessaria, e alla luce della situazione italiana, come dargli torto? Tuttavia, quando si ha a che fare con la Costituzione, è alla teoria ed ai principi che bisogna in primo luogo guardare. La fine del bicameralismo è la fine del doppio vaglio delle leggi, e la fine del doppio vaglio delle leggi coincide con la possibilità, di cui probabilmente non abbiamo ancora piena consapevolezza, di un mutamento repentino del sistema legislativo e dell’assetto dello Stato in conseguenza del mutamento delle maggioranze parlamentari.
Se è dunque più facile rinnovare i codici penale e civile ed ottenere, ad esempio, nuove conquiste in materia di diritti civili, è anche più facile restaurare gli ordinamenti del passato.
Il monocameralismo che verrà velocizza dunque le procedure parlamentari e facilita il “cambiamento”, positivo o negativo che sia. 

C’è un’altra prospettiva da cui valutare vantaggi e svantaggi del bicameralismo: è quella che muove dalle caratteristiche dell’ambiente economico in cui lo Stato italiano si trova ad agire quale competitore di altre realtà nazionali. Il panorama non è mai stato così turbolento: le circostanze cambiano velocemente, e periodi di crisi e crescita economica si succedono con velocità allarmante. Ciò impone agli Stati di dotarsi di una struttura istituzionale in grado di fargli attuare rapidamente riforme strutturali, così da adeguarsi ai cambiamenti dell'ambiente esterno ed acquisire posizioni di vantaggio competitivo sui mercati. Anche pochi mesi di anticipo rispetto ad altri Stati, relativamente ad esempio all’adozione di misure di abbassamento delle tasse ed agevolazioni alle imprese, può significare differenze abissali in termini di entità di investimenti e ricadute occupazionali. Tutto questo può non piacere, ma ci troviamo in una realtà economico-finanziaria che “impone” flessibilità, pena il collasso del sistema Italia.
Riformare l’intero sistema economico-finanziario è di una importanza vitale, soprattutto per noi che ci chiamiamo “sinistra”, ma farlo ora ed in queste condizioni è sinceramente impossibile. Cancellare il bicameralismo perfetto significa dimezzare i tempi di approvazione delle leggi, e dunque velocizzare l’Italia accrescendo potenzialmente la sua competitività sui mercati.

Sono evidenti dunque le opportunità di cambiamento e rinnovamento che si aprono per il nostro Paese, ma anche i rischi ed i pericoli che corriamo con una gestione irresponsabile delle istituzioni e del mandato rappresentativo. Basti pensare al disegno di legge sulla stretta alle intercettazioni, la famosa “norma bavaglio”, che dopo essere stata approvata alla Camera nel 2008, fu stoppata al Senato. Senza il bicameralismo, oggi la “norma bavaglio” sarebbe legge. In conseguenza della riforma del bicameralismo perfetto è necessaria di conseguenza una riforma del sistema mediatico, che garantisca in modo pieno il diritto ad un’informazione plurale ed indipendente. La maggiore velocità nell’approvazione delle leggi necessita infatti una maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica, che deve sapere in modo tempestivo cosa cambia e come cambia. Senza un’opinione pubblica attenta ed informata, i rischi derivanti dal monocameralismo sono maggiori dei vantaggi che esso consente.

In conseguenza della riforma del bicameralismo è necessario anche un secondo elemento: la tutela delle minoranze politiche. E vengo così al secondo punto: la riforma della legge elettorale, con le sue conseguenze sul panorama politico.
L’Italicum, così come è attualmente congegnato, cancella i diritti delle minoranze. Garantisce non soltanto un’azione di governo sicura grazie al premio di maggioranza, ma annulla anche la rappresentanza per i partiti che non raggiungano l’8%. Si tratta di una soglia di sbarramento assolutamente troppo alta, in relazione sia alla media europea (3-4%) sia alle esigenze del nostro assetto istituzionale. Onorevoli colleghi, chiedo di aprire una riflessione su questo punto: se la legge elettorale garantisce un vincitore con una maggioranza parlamentare, e dunque un’azione di governo sicura, che bisogno c’è di cancellare la rappresentanza dei partiti più piccoli? Perché dare un duro colpo al principio di rappresentanza, proprio in un momento storico in cui i cittadini chiedono più democrazia, più partecipazione, più possibilità di intervento sulla politica nazionale?
Con la riforma del bicameralismo e la velocizzazione delle procedure parlamentari, la forza della maggioranza di governo viene accresciuta. Davvero vogliamo, in parallelo, diminuire la forza delle minoranze parlamentari? Davvero vogliamo, dopo aver aumentato la forza del potere esecutivo, toglierci dai piedi i pareri e gli ostruzionismi delle minoranze, che di per sé hanno una connotazione neutra? Ricordo ai colleghi che nella storia della nostra Repubblica l’ostruzionismo, consentito dal bicameralismo e da leggi elettorali non maggioritarie, ha consentito grandi battaglie politiche che tutti abbiamo vissuto come un elemento positivo da preservare.
Non riesco a dare una risposta convincente a queste domande che non sia la volontà di costringere l’Italia al bipolarismo, proprio quell’Italia frammentata in una miriade di realtà politiche, sociali ed economiche differenti.

Se dovessimo adattare le istituzioni alle caratteristiche socio-politiche dell’Italia, dovremmo attuare una riforma che decentralizzasse l’amministrazione, che aumentasse le autonomie locali, che ponesse come principio primo e fondamentale quello della rappresentanza delle minoranze. E’ un problema che ci tiriamo dietro dal 1861, quando l’allora governo Ricasoli decise di centralizzare l’amministrazione, e costruire così in maniera artificiosa lo Stato italiano, che nella triste realtà dei fatti era e rimane tuttora più una unione di piccole realtà territoriali e culturale e centri locali di potere che uno “Stato” nel vero senso della parola.

Invece, onorevoli colleghi, si procede nella direzione opposta: con la riforma del Titolo V lo Stato si avoca numerose competenze in precedenza lasciate alla concorrenza con le Regioni, e con l’Italicum si cancella la rappresentanza dei partiti più piccoli; si attua un accentramento che è insieme politico ed amministrativo.
I tempi, come già ho avuto modo di dire, lo richiedono: la crisi economica e lo stato delle finanze richiedono un’amministrazione centralizzata efficiente, e non possiamo più permetterci gli “sprechi” di un’amministrazione decentralizzata e lasciata, così per modo di dire, all’attuazione locale. La necessità delle circostanze non deve però spingerci a non vedere il problema, che si erge davanti a noi immenso, a patto che lo si voglia vedere: dalla discrasia tra accentramento politico-amministrativo e frammentazione dell’Italia potrebbero arrivare i più gravi e grandi problemi per il nostro Paese, se non assumiamo consapevolezza della questione e ci dotiamo di tutta la responsabilità politico-istituzionale di cui siamo capaci.

Infine, vengo all’ultimo punto: la svolta maggioritaria e, nel futuro prossimo, presidenzialista delle nostre istituzioni.
Onorevoli colleghi, la riforma attualmente in discussione non è di impianto squisitamente presidenzialista, ma è evidente che la direzione è quella. Il monocameralismo, unito all’Italicum, ci dà un assetto di poteri in cui il potere esecutivo è dotato di grande forza e maggiore autonomia rispetto al passato, e si corre il rischio (in una realtà socio-politica malata di leaderismo) che la Camera dei Rappresentanti sia ridotta al triste ruolo di “dire di sì” ai disegni di legge del Governo. Con i listini bloccati sono i partiti a decidere la composizione della Camera, e se nei partiti sono presenti dei leader carismatici in grado di comporre a proprio piacimento le liste, in seguito alle elezioni avremo un Presidente del Consiglio a capo di un Consiglio dei Ministri che presenta leggi ad una maggioranza parlamentare che non avrà alcun interesse a mettere in difficoltà l’esecutivo, in quanto deve la propria poltrona proprio al Presidente del Consiglio.

Quest’ultima che ho delineato non è una conseguenza diretta dell’Italicum, onorevoli colleghi: esisteva già prima, ma è un meccanismo che l’Italicum ed il monocameralismo aggravano senza vie d’uscita. Il sistema delle preferenze potrebbe eliminare il problema, ma se ne verrebbe a creare un altro: l’eliminazione del finanziamento pubblico alla politica, in un sistema con le preferenze, consegna tendenzialmente i seggi parlamentari ai ricchi ed ai lobbisti. Cancellare il finanziamento pubblico ai partiti è stato uno degli errori più grossi di questa legislatura, e ne pagheremo drammaticamente le conseguenze nei decenni a venire: senza i contributi pubblici ci troviamo a decidere tra le seguenti alternative: avere un parlamento di nominati, oppure un parlamento di ricchi e lobbisti.

Come vedete, onorevoli colleghi, quando entriamo nel merito delle questioni ci imbattiamo in innumerevoli problemi e complicazioni, ed ignorarli semplicemente non affrontando il dibattito è un modo puerile per cadere negli errori peggiori.

Vi chiedo, onorevoli colleghi, di affrontare in modo analitico la questione del sistema da adottare, se tendente al proporzionalismo ed ispirato al principio di rappresentanza oppure tendente al maggioritarismo e dunque ispirato al principio di governabilità. E’ di importanza vitale farlo, perché ci consente di distinguere tra la genuinità della teoria e la drammaticità della realtà dei fatti, e ci consente dunque di dotarci del necessario realismo e pragmatismo per affrontare la questione.

La teoria ci dice, infatti, che “democrazia” fa rima con “rappresentanza proporzionale”: la democrazia rappresentativa ideale prevede un sistema proporzionale puro, in cui i seggi vengono assegnati in funzione della percentuale di voti ed i rapporti di forza tra le varie delegazioni parlamentari si creano sulla base dei rapporti di forza tra le varie componenti politiche e sociali dell’elettorato. In caso non ci sia maggioranza assoluta di una forza parlamentare o di una coalizione, si creano i governi di larghe intese, i quali (sempre in un’ottica squisitamente teorica) sono l’espressione più pura e sopraffina della democrazia rappresentativa: chi non ha la forza per governare, deve collaborare con gli avversari.

Per funzionare, questo sistema “ideale” richiede grande senso civico nei cittadini e rappresentanti, nonché grande cultura democratica in tutta la popolazione. Proprio ciò che manca alla nostra Italia, onorevoli colleghi: le “larghe intese” sono sempre valutate come il male assoluto, ed abbiamo ormai da tempo perso la disponibilità al confronto ed alla collaborazione. Di più: nei decenni che sono alle nostre spalle, il sistema tendenzialmente proporzionale di molte leggi elettorali (il Porcellum tra le ultime) è stato l’elemento che ha causato la perdita di fiducia dei cittadini nei confronti di partiti ed istituzioni: è ciò che ha causato la crisi della politica.
Gli elettori, infatti, hanno ripetutamente votati programmi elettorali di partiti che, incapaci di ottenere la maggioranza assoluta, si sono trovati nella necessità di formulare programmi di governo (di larghe intese) diversi da quelli presentanti ai cittadini. Da qui la delusione crescente nell’elettorato, la consapevolezza dell’impossibilità di svolte radicali, la crescente percezione di assenza di differenza tra destra e sinistra: in poche parole, il proporzionalismo ha causato, in Italia, la nascita dell’antipolitica.

Sebbene contrario alla democrazia ideale che tanto piace alle opposizioni, democrazia rappresentativa proporzionale che è e resta una forma ideale priva di applicazione concreta per il semplice motivo che non siamo in grado di realizzarla e la conformazione politica italiana non lo consente, la svolta maggioritaria dell’Italicum è da accogliere con grandissima gioia e soddisfazione: finalmente darà un vincitore certo, finalmente darà un’azione di governo certa e coerente con il programma scelto e votato dal cittadino.

Onorevoli colleghi, il sistema maggioritario è ciò che serve all’Italia oggi, sulla base della sua conformazione politica interna e sulle caratteristiche dell’ambiente economico internazionale: c’è bisogno di governi che diano stabilità e coerenza d’azione al Paese. Avere un programma di governo stabile consente anche di valutarne con maggiore facilità la rispondenza alle esigenze del Paese, e la capacità dei governanti che si trovano a realizzarlo: il sistema maggioritario semplifica la vita al cittadino, che sa cosa vota, chi vota, e chi è l’eventuale responsabile di un eventuale fallimento.

Il sistema maggioritario è dunque da concepire, in questo momento storico, come una stella polare che ci indica la via. Su questo punto fermo dobbiamo far leva per affrontare nel merito tutte le altre questioni e risolvere tutti i problemi che si pongono alla nostra attenzione: le questioni della tutela e della rappresentanza delle minoranze, della necessità di un sistema mediatico indipendente dalla politica, della vitale importanza di un’opinione pubblica attenta e critica verso l’azione di governo.

Spesso, sia fuori che dentro quest’aula, ho sentito parlare di “fine della democrazia”. E’ questa una delle più grandi colpe delle opposizioni: ridurre la questione ad una semplice considerazione lapidaria, annullando ogni possibilità rimasta di dibattito e di approfondimento.
Ebbene, la democrazia non finisce con questa riforma costituzionale: la democrazia cambia, ma non muore. Essa, al contrario, riceve colpi mortali ogni volta che l’opinione dell’altro viene sminuita, svilita e delegittimata sulla base di argomenti che nulla hanno a che fare con il merito delle questioni.
E’, questa, una verità che dobbiamo tutti quanti, tutti, recuperare: se non recuperiamo la cultura del dibattito e della critica, se non recuperiamo il piacere di discutere e di arrivare anche ad eventuali compromessi, tutto è perduto e non c’è più speranza per nessuno di noi.